Il 25 aprile del 1951, scegliendo una data simbolo della nuova Italia repubblicana e democratica, un gruppo di giovani pubblica il primo numero della rivista “il Mulino”. L’obiettivo è chiaro: disporre di una sede dove riflettere e discutere sull’Italia e sul mondo al di là dei rigidi steccati ideologici del tempo e attraverso gli strumenti conoscitivi forniti dalle scienze sociali. Parafrasando il celebre motto di Luigi Einaudi, la rivista voleva “conoscere per discutere”. Ma l’analisi e l’approfondimento erano orientati a uno scopo “politico” – non per nulla la rivista si autodefinisce “di politica e di cultura”.
L’intendimento politico è netto fin da subito e consiste nel rafforzare l’area politico-culturale democratica articolata nei suoi tre tronconi storici: liberale, socialista e cattolico. La peculiarità del “Mulino” di quel periodo consiste nel far dialogare cattolici e laici, un dialogo che abbatte le idiosincrasie reciproche, al punto da arrivare al riconoscimento da parte dei laici dell’impatto epocale del Concilio Vaticano II e da parte dei cattolici del diritto civile al divorzio con la clamorosa iniziativa del manifesto dei cattolici del No patrocinato da Luigi Pedrazzi e Pietro Scoppola. Ma oltre a questo obiettivo, perfettamente raggiunto all’interno dell’area democratico-liberale tanto che i laici a 24 carati sono più in sintonia con i cattolici conciliari che con i pallidi laici, i giovani fondatori della rivista hanno un intendimento di lungo periodo: in un lungo editoriale manifesto pubblicato nel 1957, Nicola Matteucci e Luigi Pedrazzi si propongono di muoversi verso il post-fascismo. A dieci anni dalla fine della guerra, scrivevano, bisogna andare oltre la divisione che ha lacerato l’Italia e guardare avanti.
Oggi, anche noi, eredi a cui spetta la barra del timone, riteniamo di dover puntare al futuro, al “post-populismo”: alla fine di un sistema imperniato sulla contrapposizione assoluta noi/loro, sulla delegittimazione dell’avversario, sull’adorazione del leader, sul picconamento delle regole costitutive della democrazia repubblicana, sull’invasione mediatica della politica; e, infine, sulla volgarità dell’arroganza, della protervia e dell’esibizione sia della ricchezza che del proprio non commendevole privato. Il populismo ha tarlato tanto l’impianto istituzionale quanto la stessa cultura civica nazionale. È essenziale superare questa fase, terminale ma non per questo terminata nei suoi effetti negativi, per progettare la ricostruzione politica e morale su poche, semplici basi: l’ancoraggio alla realtà dei fatti per opporsi concretamente al gioco di specchi e alle mistificazioni, l’attaccamento ai principi liberal-democratici e alla giustizia sociale, il rispetto della dignità della persona e delle genti, la fiducia nella costruzione europea. Andare, appunto, oltre il populismo; per avviare, con una urgenza, una nuova “ricostruzione”.
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