Questa è una storia americana contemporanea che più americana non si può. È la storia di un giovane della Virginia di nome Christopher Anthony Lunsford che scrive una canzone nella quale narra le sue frustrazioni di uomo della classe lavoratrice che vive una vita da schifo in luoghi marginali d’America, lavorando per una paga da schifo e circondato da malessere e frustrazione.
Il suo nome d’arte è Olivier Anthony, in onore di suo nonno “e dell’Appalachia degli anni Trenta, pavimenti di terra, sette figli, tempi duri” – come scrive in un lungo post di presentazione al mondo su Facebook. La canzone si intitola Rich men North of Richmond ed è stata postata dalla West Virginia Radio, che aveva chiesto a Lunsford di registrare un video con un suo brano. È diventata in pochi giorni il successo musicale dell’anno: decine di milioni di visualizzazioni del video e milioni di download quando la canzone è stata caricata sulle piattaforme di streaming musicale. È anche la prima della storia ad arrivare dritta in vetta alla Billboard chart cantata da un cantante che non aveva mai registrato un disco in maniera professionale.
Come ogni cosa americana contemporanea che si rispetti, anche il video country di questo giovane si è rivelato profondamente divisivo (o polarizzante, come si usa dire). La ragione è semplice e risiede in quella narrazione tanto fiera quanto tendenzialmente conservatrice della vicenda della working class americana che non è nuova ma che, in anni recenti, è diventata merce per la politica negli Stati Uniti e anche in Europa. Nel suo testo, nei suoi testi, troviamo tutto il malessere, il risentimento e lo spiazzamento dell’America più profonda, quella delle miniere e dell’agricoltura povera dei monti Appalachi, nell’area che va dalla West Virginia alla Virginia, al Kentucky, alla North Carolina, a ridosso delle coste e delle loro città e vizi.
Una narrazione tanto fiera quanto conservatrice della vicenda della working class americana che non è nuova ma che, in anni recenti, è diventata merce per la politica negli Stati Uniti e anche in Europa
Depressione e rabbia sono sentimenti giustificati e giustificabili per la gente come Christopher Anthony Lunsford: gli Appalachi (e altre aree del Midwest) sono stati usati, spremuti, inquinati e poi lasciati a loro stessi quando il tessile, la carta, il carbone e altre produzioni della prima rivoluzione industriale sono divenute obsolete, spostate altrove o automatizzate – tra il 2008 e oggi l’estrazione di carbone si è dimezzata, ma l’occupazione era crollata molto prima: i minatori americani oggi sono meno di 40 mila, mentre erano quasi un milione negli anni Venti del secolo scorso.
Che cosa racconta il nostro cantautore country nelle sue canzoni e perché ha tanto successo? Prendiamo qualche verso. Rich men North of Richmond comincia così:
“Ho venduto la mia anima, lavorando tutto il giorno/ore di straordinario per una paga di merda/Per potermi sedere qui fuori e sprecare la mia vita/Tornare a casa e annegare i miei problemi/ È un vero schifo quel che il mondo è diventato/Per le persone come me e come te […] Vivere nel nuovo mondo/Con un'anima vecchia/I ricconi a Nord di Richmond/solo il Signore sa quanto desiderino avere il controllo totale, sapere cosa pensi e cosa fai”.
Il canto di un operaio depresso che siede sulla veranda di casa a ubriacarsi, che si trova marginalizzato nel mondo contemporaneo ed è arrabbiato con i miliardari che lo sfruttano. La prima interpretazione del testo è corretta, le seconda molto meno. Il problema infatti non sono i padroni del vapore, quei “rich men” sono quelli che vogliono controllare tutto (le multinazionali social). Ma andiamo avanti.
Nella sua canzone Olivier Anthony si lamenta che “i tuoi dollari sono tassati fino all’ultima goccia” e si augura che i politici si curino dei minatori “invece che dei minori su un’isola”, un riferimento alla pedofilia molto in voga tra le teorie del complotto circolate in questi anni nel sottobosco social della destra americana. Continuiamo.
“Abbiamo gente per strada, che non ha da mangiare/E gli obesi che mungono l'assistenza sociale. Beh, se sei alto un metro e ottanta e pesi 300 libbre/Le tasse non dovrebbero pagare i tuoi sacchetti di dolciumi/I giovani si seppelliscono sotto a un metro e mezzo di terra/Perché questo dannato Paese non fa altro che prenderli a calci”.
Nella retorica della destra gli obesi mangiadolci che spremono il Welfare sono gli afroamericani, mentre i giovani che seppelliscono sé stessi sono i bianchi del Midwest, vittime degli oppiacei sintetici o dell'eroina – gli Appalachi e in particolar modo la West Virginia vedono da anni i numeri pro capite più alti di morti per overdose.
La prima impressione è quella di essere di fronte a una delle mille versioni della storia “Welfare queen”, un epiteto usato da Ronald Reagan nella campagna elettorale del 1976 che raccontava come una donna – forse neppure afroamericana – vivesse facilmente alle spalle del Welfare e dei contribuenti truffando lo Stato. Una canzone di successo di qualche anno fa si intitolava Welfare Cadillac e narrava di un quartiere pieno di immondizia e scarafaggi nel quale giravano Cadillac pagate con soldi pubblici, mentre i figli del protagonista avevano libri e pasti gratuiti a scuola.
(Se tutto questo vi ricorda la retorica sul Reddito di cittadinanza è perché si tratta esattamente della stessa cosa.)
In un articolo pubblicato diversi anni fa sul «manifesto», Alessandro Portelli, tra gli autori che meglio conosce e ha raccontato i minatori degli Appalachi, scriveva, parlando di uno scambio con due camionisti della West Virginia:
“Dico, si parla sempre dei democratici reaganiani, i lavoratori bianchi che votano McCain…”.“A me Reagan piaceva, aveva quel bel sorriso…”. Del reaganismo proletario bianco gli rimane la convinzione che chi fa ricorso al Welfare è un parassita che non ha voglia di lavorare. “Quando stavo in Texas mi hanno licenziato e non sapevo come mantenere la famiglia. Mi sono preso a pugni in faccia per una settimana prima di abbassare l’orgoglio e andare a chiedere il sussidio”.
Un aneddoto che coglie perfettamente il modo di percepirsi e percepire l’altro di un segmento della società americana.
Ma torniamo a Olivier Anthony: in un post su Facebook il nostro si presenta come una persona con una storia difficile, operaio, incidentato sul lavoro, rappresentante che ha incontrato migliaia di tute blu “dannatamente stanche di essere trascurate, divise e manipolate”. Il ragazzo con la barba rossa che fotografa se stesso con un sorriso sghembo e un cane bianco al fianco vive in un camper di quelli dove abitano poco meno di 20 milioni di americani e ha avuto problemi di depressione ("mental health", scrive) e alcol. Nelle canzoni, insomma, racconta la sua storia e anche per questo funziona così bene.
Ci risiamo, ecco un mondo immaginario povero, dignitoso ma felice, che forse era tale perché, a differenza di quello in cui viviamo oggi, l’idea era che i giorni migliori sarebbero stati quelli a venire
In altri suoi brani Olivier Anthony dice: “Non ho un dollaro, ma non mi serve un centesimo, ho un piccolo posto in campagna e finché il camion si accende e dalla terra spunta qualcosa…”. O anche: “Tutto ciò di cui hai bisogno è un cane, una baracca con un ruscello sul retro e una... brava donna da abbracciare. Non hai bisogno dell'oro dell’uomo ricco”. Ci risiamo, riecco un mondo immaginario povero, dignitoso ma felice, che forse era tale perché, a differenza di quello in cui viviamo oggi, l’idea era che i giorni migliori sarebbero stati quelli a venire. L’altra cosa che la cultura contemporanea di chi vive nel Midwest o nelle zone minerarie abbandonate dimentica è che le migliorie venute con gli anni i minatori le hanno conquistate a suon di lotte furibonde contro i padroni del vapore (di nuovo: leggere Portelli). Oggi, nell’immaginario dei locali, chi si batte per i minatori sono le compagnie minerarie che devastano il territorio o i politici con interessi diretti nell’industria estrattiva come il senatore Joe Manchin, voto cruciale democratico in Senato che ha bloccato diverse misure anti-cambiamento climatico per proteggere le compagnie di cui è azionista e, naturalmente, i minatori.
Torniamo al post di Olivier Anthony: “ODIO il modo in cui Internet ha diviso tutti noi. Internet è un parassita, che infetta le menti degli esseri umani e si fa strada con loro. Ore sprecate, obiettivi dimenticati, persone care sedute in casa distratte tutto il giorno dalla tecnologia […] Quando torneremo a combattere per ciò che è giusto? Milioni di persone sono morte per proteggere le libertà che abbiamo. La libertà di parola è un dono così prezioso”. Il post autobiografico passa di colpo alla tecnologia e alla libertà di parola, il che sottintende che le imprese tecnologiche (che pure stanno “a nord di Richmond”) sono il male e che la libertà di parola (la stessa del generale Vannacci e di Donald Trump) è messa in discussione dalla censura liberal-miliardaria. Il cantautore, che è uno vero, che racconta un malessere reale, è intriso di un mix di vecchi pregiudizi e cultura contemporanea che però viaggia proprio su Internet.
Nel clima politico americano, con Trump che naviga felice verso la nomination repubblicana soffiando sul risentimento verso “i ricchi e i potenti di Washington” o la Cina, ma anche sul razzismo di parti non indifferenti (e non neglette) della società americana, Olivier Anthony è diventato immediatamente un campione dei milioni di nostalgici dei Good Ol’ Times. Importanti figure della galassia conservatrice ne parlano e lo rilanciano: Matt Walsh, nel suo canale YouTube da 2,7 milioni di iscritti, elogia le verità contenute nella canzone country che “non somiglia alle classiche canzoni di oggi che sembrano scritte da un algoritmo” – mentre nello stesso video ospitato da una piattaforma multinazionale parla per tre minuti dei suoi sponsor. E la canzone ha
introdotto una delle domande rivolte ai candidati alle primarie presidenziali repubblicane durante il primo dibattito televisivo.
L’essere usato dalla destra e criticato dalla sinistra non è piaciuto al nostro menestrello country, che ha postato un video di 10 minuti in cui parla del suo successo istantaneo e fornisce un’interpretazione delle parole di Rich men North of Richmond. Olivier Anthony descrive il modo in cui è stato approcciato dalle case discografiche (“non avete idea di che mondo schifoso”) e puntualizza diverse cose. “È stato buffo vedere la mia canzone in quel dibattito presidenziale perché l’ho scritta su di loro… La cosa che mi ha infastidito è vedere le persone farci politica […] È fastidioso che chi lavora nei media conservatori cerchi di identificarsi con me”. In 10 minuti Olivier Anthony, forse, ribalta la prospettiva. La canzone non è contro Biden o i percettori di Welfare, ma contro i politici incapaci di vedere quel che succede nei luoghi che li eleggono se non quando si tratta di interessi organizzati e capaci di spendere (a Nord di Richmond, Virginia, c’è la capitale federale, Washington DC). Eppure il testo della canzone si presta a tutti gli equivoci di cui è stato vittima Olivier Anthony, che probabilmente si nutre di articoli e notizie lette su Internet e sui social. Il suo cuore è puro, non è razzista, ma è imbevuto del mondo nel quale è nato e cresciuto proprio come i camionisti di cui racconta Portelli.
Perché raccontare questa storia? Perché è una tra le mille da raccontare per prendere atto che nelle società occidentali c’è un mondo di sotto che si sente dimenticato – e che è tale – e che ha un immaginario per il quale la colpa del suo stare male è qualcuno negletto, malmesso e bistrattato come lui ma con la pelle o una cultura diversi, oppure delle immaginarie élite liberal. Negli Stati Uniti la cosa è particolarmente sentita perché una parte importante di quei lavoratori poveri si è sempre percepita come middle class, come parte fondante di un sistema che oggi sembra averla dimenticata. L’abilità della destra da Reagan fino a Trump è aver costruito risposto agli enormi cambiamenti della nostra epoca costruendo una narrazione che mescola paure, credenze, elementi di verità e pregiudizi, cui la sinistra oppone ragionamenti articolati e policies senza rendersi conto che occorrerebbe proporre una narrazione convincente, uguale e contraria, e non solo ricette logiche. Un punto che, con tutte le sue debolezze, Bernie Sanders aveva intuito, come mostrano i consensi raccolti in Stati conservatori e bianchi.
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