«O Nikos o Beppe », sentenzia dal suo blog Giuseppe Grillo, detto Beppe. Quel che intende è da un lato semplice, dall’altro preoccupante: a salvare la vita (ma lui usa un’altra espressione, più fescennina) della democrazia, e per paradosso della partitocrazia, può provvedere solo il Movimento 5 stelle. Quando la (cosiddetta) Seconda Repubblica sarà giunta al capolinea, spiega, o il vuoto in cui è precipitata la politica sarà stato riempito da «un movimento di popolo che ha deciso di tirarsi su le maniche e occuparsi della cosa pubblica», o sarà invece riempito da movimenti neofascisti come quello francese di Marine Le Pen, o ultranazionalisti come Fidesz, dell’ungherese Viktor Orban, o nazisti come quello greco di Alba dorata, capeggiato dal Nikos (Michaloliakos) di cui lui sarebbe l’alternativa. Insomma, o Beppe o dittatura.
Resistiamo alla curiosità, e non indaghiamo troppo sulla circostanza singolare che nell’elenco funesto non ci sia la Lega Nord, il solo movimento di massa italiano che si possa ricondurre all’estrema destra del tipo Blut und Boden, sangue e suolo. Forse il silenzio dipende dal fatto che, fra un Trota e l’altro, il partito degli etnisti nostrani si sta dissolvendo. O forse la questione è più tattica, come suggerisce anche la presa di posizione di Grillo contro lo ius soli e contro la cittadinanza per i figli degli immigrati che siano nati in Italia. Insomma, quelli leghisti sono voti in gran parte in attesa di collocazione. Può convenire essere delicati, e non urtare sensibilità doloranti.
In ogni caso, qualunque sia la ragione dello specifico silenzio, la paura (o la minaccia) di Grillo ha una sua triste dignità, certificata dai risultati di alcune campagne elettorali europee. Dunque, dobbiamo davvero temere un più o meno prossimo futuro da nazisti? La domanda è impegnativa, e la risposta problematica. Conviene chiedere aiuto a Hannah Arendt, che durante la sua giovinezza il nazismo, quello storico, se l’è visto nascere e trionfare attorno.
In Le origini del totalitarismo, dunque, Arendt scrive che i movimenti totalitari trovano terreno fertile dove ci siano masse di uomini e di donne che, per il numero o per indifferenza verso le questioni pubbliche, non si possono inserire in un’organizzazione basata sulla comunanza di interessi. Tra di loro pescano i dittatori, tra questa gente che gli altri partiti non raggiungono più. Il risultato, continua, è che quegli uomini e quelle donne sono messi in marcia da partiti nuovi, in maggioranza composti da persone mai apparse prima sulla scena politica, forti di strumenti di propaganda anch’essi nuovi, e con un atteggiamento di noncuranza per gli argomenti degli avversari. In fondo, è quello che è avvenuto in Italia dopo il ‛92, con due populismi apparentemente distanti – quello antiliberale di Umberto Bossi e quello pseudoliberale di Silvio Berlusconi – che si alleano, e così organizzano e controllano l’indifferenza politica delle masse lasciate orfane dal crollo della divisione bipolare del mondo.
E oggi? Che cosa può accadere oggi, dopo che i due populismi sono crollati anch’essi, insieme con la loro propaganda televisiva incentrata sull’ideologia del “numero uno”, e con i loro slogan nutriti di paura e di odio per i migranti? Pare abbia ragione Grillo. Può accadere che, a riorganizzare la politica italiana, intervenga una nuova forma di populismo – lui la chiama dittatura –, con partiti o movimenti nuovi, condotti da uomini mai apparsi prima sulla scena politica. E ancora può accadere che la loro forza stia nell’uso di una propaganda e di un linguaggio nuovi, segnati da noncuranza per gli argomenti dei loro avversari.
A proposito, come si fa a non osservare che la scena su cui Grillo si è formato non è quella politica? Certo, poi, il suo linguaggio e la sua propaganda sono nuovi. E infine il divieto imposto ai “grillini” di comparire in dibattiti televisivi lascia trasparire, e anzi conferma, una noncuranza programmatica per gli argomenti degli avversari. Qui ci fermiamo. Sarebbe troppo facile – e ingiusto, vogliamo sperare – vedere nel dualismo «o Nikos o Beppe» non un’opposizione, ma un’alternativa, per così dire, concorrenziale.
Riproduzione riservata