Ha causato un certo scompiglio il risultato di una ricerca apparsa sui Proceedings della National Academy of Sciences. Il primo autore appartiene al Core Data Science Team di Facebook. Lo sdegno dei commenti che si sono levati un po’ ovunque, e che si propagano e amplificano a ritmo martellante, ha indotto prima lui poi il COE della compagnia a presentare delle scuse formali pur difendendo la correttezza del proprio operato. Nel loro lavoro i ricercatori volevano capire se e con quale intensità le emozioni delle persone siano contagiose online. La stampa si è affrettata a bollare come ovvia la risposta positiva ottenuta, che di ovvio invece non ha nulla.
L’indagine, infatti, era riferita al contagio diffuso attraverso la lettura dei post sul social network, una forma di interazione indiretta. Anche se ogni utente digitale ha avuto in qualche modo una sua percezione di quel contagio era la sua misura quantitativa l’oggetto della ricerca. In particolare essa include il calcolo delle correlazioni e soprattutto il delicato controllo della robustezza statistica del campione in esame.
Per studiare la reazione alle emozioni del prossimo i tre hanno inibito talvolta la visibilità di alcune espressioni positive e altre volte di quelle negative e confrontato il tutto con dati non modificati. Le misure eseguite su 689.003 individui in una settimana del 2012, l’analisi degli oltre 3 milioni di post e delle 122 milioni di parole, hanno confermato la viralità digitale delle emozioni osservate, seppure di modesta intensità. Ma né quelle scuse né quel che è emerso a poche ore dalle prime polemiche, che il colosso informatico al momento dell’iscrizione chiede di firmare il consenso a tutto e di più nel chilometrico contratto che nessuno legge, sembra essere bastato. Si parla già di indagini di commissioni governative e di possibili violazioni di regolamentazioni federali.
C’è chi si è chiesto se manipolare e indurre la tristezza possa causare il suicidio. E di passo in passo: manipolare la rabbia può indurre la violenza domestica o l’omicidio? Plasmare una opinione politica plagiando le menti può condurre a una guerra? Andiamo per ordine.
Stabilire quali siano i principi etici a cui un social network debba attenersi è ormai urgente. Per farlo risulta utile capire cosa sia veramente un social network e di che natura sia il potere che amministra.
Il potere della stampa e quello delle telecomunicazioni sono poteri gemelli, diversi solo in velocità ed efficacia di diffusione. Ma la Rete è un mezzo strutturalmente diverso. In particolare, nei social network quello che viene mostrato all’utente è una sintesi delle azioni dei suoi interlocutori, con l’aggiunta di materiale (soprattutto pubblicità) scelto ad hoc per lui. È questa la chiave del loro potere.
In cosa differisce da quello dei media tradizionali? Anche la sintesi dei palinsesti televisivi permette (e nel migliore dei casi si limita a quello) di enfatizzare alcune notizie e minimizzarne altre. Dopo anni però, in qualche modo, abbiamo imparato a conviverci e anche a sviluppare una sana diffidenza verso le parole dei media, se non altro per confronto tra canali diversi e testate in lotta.
Le parole di Facebook invece hanno il volto di Alessandra e di Stefano, di Luca e di Cecilia. Volti che ascoltiamo disarmati e con quella grande fiducia che solo anni di vita insieme e reciproco rispetto possono indurre. Con perturbazioni anche piccole di quelle voci un social network amministra un potere immenso quanto invisibile, insidioso proprio perché ci coglie disarmati. Recapitarci, dosate ad arte, le espressioni delle nostre cerchie fidate può influenzare le nostre emozioni e le nostre opinioni infinitamente di più degli ormai classici mezzi di informazione.
In molti abbiamo associato l’esperimento a una versione moderna, diversamente spettacolare, della trasmissione radiofonica “La Guerra dei Mondi” con cui il genio di Orson Welles gettò nel panico molti ascoltatori fingendo di descrivere un attacco extraterrestre al nostro pianeta. Anche allora si trattò di manipolazione emozionale e si parlò giustamente di necessità di commissioni di controllo etico. Ma il vero significato di quell’evento, per cui viene ancora oggi ricordato, è l’emblematica rivelazione del potere dei media.
Quello che emerge dal lavoro scientifico citato e dalle polemiche scaturite è un primo, piccolo e pubblico, segno di un nuovo enorme potere. Esso apre una lunga serie di interrogativi, di diversissima e complessa natura. Ne menzioniamo alcuni che lasciamo in compagnia del lettore: quella ricerca avrebbe potuto essere fatta all’interno del mondo accademico tradizionale? Quanti altri esperimenti di quel tipo vengono fatti a nostra insaputa? L’immensa conoscenza statistica che Google e Facebook hanno di noi è eticamente corretta? E’ monopolistica? E’ tempo di considerare l’informazione come una preziosissima risorsa, pari almeno all’energia o all’acqua, e di tutelarla in modo opportuno?
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