Bambine scomparse. L’India ha deciso di contarsi, avviando una mastodontica operazione di censimento – la più grande della storia mondiale – presentata da New Delhi come “passo indispensabile” per conoscersi meglio, e delineare nuove politiche sociali. La logica dei numeri ha però evidenziato un lato oscuro (non l’unico) della sovraffollata democrazia indiana, più appropriato a un Paese del Terzo Mondo che alla seconda potenza asiatica. Si tratta dell’infanticidio e dell’aborto selettivo, pratiche talmente diffuse e radicate nella società,da essere quasi considerate normali, soprattutto all’interno delle comunità più povere e di villaggio. Picchi inquietanti, tuttavia, interessano anche le famiglie agiate, composte da coniugi istruiti. L’allarme è stato dato dalla rivista medica “Lancet”, che dopo un’attenta analisi, passata anche attraverso i dati del censimento, ha denunciato come negli ultimi trent’anni potrebbero essere state uccise o abortite dodici milioni di bambine. Non a caso, il censimento appena concluso ha evidenziato un gap numerico femminile superiore ai 7 milioni di individui. Questo vuoto non è certo imputabile al caso o alle probabilità del concepimento, ma dipende dalla condizione della donna in India, da sempre considerata inferiore all’uomo, nonché un peso per la famiglia a causa del “prezzo della sposa” che grava sui genitori quando combinano il matrimonio della figlia. La dote non è l’unico movente a decretare la morte di una neonata, ma il principale, cui si sommano molti altri elementi da ricercarsi nelle sfumature di ciascun sistema sociale, tanto al Nord quanto al Sud del Paese, senza distinzione di casta o di religione. Nell’impossibilità di mantenere una figlia, o comunque prevedendo di non riuscire a sostenere il peso delle nozze, molte famiglie scelgono di liberarsene con un aborto selettivo, oppure chi non ha abbastanza soldi per l’ecografia o per l’aborto opta per l’uccisione della neonata. Fino a qualche tempo fa, si riteneva che la pratica dell’infanticidio fosse relegata alle zone rurali, ma i dati del censimento hanno evidenziato come la piccola borghesia sia altrettanto colpita, anche nel caso in cui i coniugi abbiano completato gli studi obbligatori, quindi, almeno in teoria, meglio educati e più consapevoli.
Il governo indiano ha introdotto negli anni varie misure per arginare il problema, riuscendo a complicare le cose. Un esempio è stato l’introduzione di pene severe, comminate in particolare alle madri, cui sembra spetti il compito di togliere la vita alla neonata, spesso somministrando latte avvelenato. Presto si è visto che una pena di trent’anni di reclusione a una donna omicida finiva per condannare all’indigenza il resto della famiglia, puntualmente composta da altri bambini, che veniva privata del suo principale pilastro.
Sono allora spuntati come funghi gli orfanotrofi pubblici, presso i quali dare in affidamento le neonate destinate all’adozione. Non fosse che le agenzie di “collocamento” delle piccole, a conduzione privata, si sono in molti casi dimostrate incapaci di svolgere questo delicato lavoro. La necessità di accaparrarsi bambine da affidare per avere incentivi e donazioni e la velocità con cui le piccole venivano piazzate hanno svelato ben presto l’esistenza di un sistema tutt’altro che trasparente, spesso colluso con la malavita e raramente attento all’interesse delle bimbe. Tra il 1991 e il 2001 sono stati provati 350 casi di rapimento e vendita di bambine (e bambini portatori di handicap), cui si aggiunge il numero dei casi di mortalità quattro volte superiore alla media nazionale.
Ancora, il governo indiano ha introdotto un premio “salva dote” di 15.000 rupie da destinare alla prima figlia di ogni famiglia. Questo ha effettivamente favorito la sopravvivenza delle prime nate, ma non delle seconde figlie, cui non spetta alcun sostegno economico, condannandole in molti casi all’uccisione. A conti fatti, le statistiche svelano come l’aborto selettivo e l’infanticidio non siano retaggi di tradizioni antiche, ma continuino a sussistere, con incidenze crescenti dal 2000 a oggi. Ciò dimostra in modo quasi empirico che la diffusione della scolarizzazione, l’aumento del reddito pro-capite e nuove opportunità di occupazione non bastano a trasformare una democrazia in un Paese civile. In particolare quando un governo ha più a cuore gli espropri di terre da destinare allo sfruttamento minerario che gli investimenti in politiche sociali adeguate.
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