Vittime senza nome. Da ventidue anni, in Kashmir, migliaia di civili continuano a essere perseguitati, torturati e uccisi, senza che vengano identificati i colpevoli di quelle che ufficialmente vengono archiviate come “sparizioni senza nome”. Quando accade qualcosa di brutto in Kashmir, la comunità internazionale è solita puntare il dito contro Islamabad. Questa volta, invece, un avvocato locale ha avuto il coraggio di chiamare in causa Nuova Delhi, denunciando che buona parte delle tombe senza nome di questa contesa regione sono state scavate da militari indiani.
Capita spesso, raccontano agenti di polizia del Kashmir, che soldati indiani denuncino ai commissariati locali l’uccisione a sangue freddo di “terroristi pakistani” colpevoli di aver illegalmente superato il confine che separa il Kashmir pakistano da quello indiano. Per poi rispondere, quando viene loro chiesto di localizzare i corpi per permetterne l’identificazione, di averli prontamente seppelliti. Certamente non per rispetto nei loro confronti, ma per nascondere un’aggressione, probabilmente ingiustificata, ai danni di civili: è questa la tesi dell’avvocato locale e attivista per i diritti umani, Parvez Imroz, stanco di constatare che nel suo Paese si continui a morire senza ragione.
Calcolare con precisione il numero di persone che hanno perso la vita in Kashmir negli ultimi decenni non è facile, ma le stime più accurate e attendibili denunciano quasi 70.000 vittime. Una delle più recenti segnalazioni di morte di “terroristi pakistani” per mano di militari indiani è stata registrata ad aprile e archiviata in meno di ventiquattr’ore. Probabilmente nessuno ne avrebbe riparlato se Imroz non l’avesse collegata alla scomparsa di tre giovani pakistani di meno di trent’anni residenti nei villaggi in prossimità della Linea di controllo, il confine provvisorio tracciato nel 1972.
Sono anni che Imroz denuncia la scomparsa di «civili entrati accidentalmente in contatto con militari indiani». Un’accusa cui Nuova Delhi ha sempre risposto prima dichiarandosi estranea ai fatti, poi incolpando il nemico storico di essere, direttamente o indirettamente, l’unico responsabile di queste sparizioni.
In passato, per paura di essere a loro volta perseguitate, le famiglie hanno spesso preferito evitare di denunciare le sparizioni dei propri cari. Oggi, invece, c’è chi spera che l’indignazione provocata da quest’ultimo fatto di sangue, che per una volta ha coinvolto giovani con un nome – Mohammad, Riyaz e Shahzad – possa far cambiare qualcosa. Quanto meno sul piano legale. Perché, mentre militari e paramilitari indiani possono beneficiare di un’immunità totale, i locali possono essere condannati per «presunta intenzione di commettere atti sovversivi in futuro», e rimanere in carcere con questa accusa fino a due anni. Un destino che, secondo i dati di Human Rights Watch, ha già rovinato le vite di 20.000 persone.
Nuova Delhi ha provato più volte a far tacere Imroz. Nel 1996 ha rapito e ucciso il suo amico e collega Jalil Andrabi, convincendolo così a non sposarsi e a non avere figli per evitare di mettere in pericolo la vita di chi gli sarebbe stato vicino. Nel 2002 e nel 2004 due persone a lui molto vicine rimasero, rispettivamente, gravemente ferite e uccise in “misteriosi incidenti”. Nel 2005 gli venne negato il visto per andare a ritirare il prestigioso Ludovic-Trarieux International Human Rights Prize. Imroz ha poi deciso di sposarsi, ha avuto due figli, ha costruito la propria casa di fianco a quella dei familiari e anche quando, la sera del 30 giugno 2008, lui e la sua famiglia sono stati oggetto di un misterioso attentato, ha proseguito la sua missione. E, approfittando della visibilità che l’attentato gli ha fatto guadagnare in Occidente, ha iniziato a raccogliere, con ancora più determinazione, le testimonianze dei parenti degli “scomparsi” e a cercare le fosse in cui sono seppelliti perché, un giorno, anche loro possano avere giustizia.
Riproduzione riservata