Il nome dell’ex ministro Mannino è di quelli che rimarranno nella storia giudiziaria del Paese. L’assoluzione, pochi giorni or sono, nel troncone del processo Trattativa a Palermo e la sentenza della Cassazione che, una decina di anni fa, praticamente ne dichiarò l’innocenza dall’accusa di concorso esterno sono di quelle che restano nel pantheon processuale.

Si è fatto un gran discutere della formula con cui il giudice palermitano ha assolto Calogero Mannino «per non avere commesso il fatto». Una cosa, si badi bene, non da poco a fronte di una pesante richiesta di condanna dei pubblici ministeri, ma in tanti hanno evidenziato che ben più dirompente sarebbe stata un’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Questo avrebbe voluto dire che la trattativa mafia-Stato non è mai venuta in essere con tutte le ricadute sul processo che si sta celebrando (quello, per intenderci, in cui è stato ascoltato come testimone Giorgio Napolitano).

Due osservazioni. In primo luogo era del tutto improbabile, se non impossibile, che il giudice – nel prendere in esame la posizione di uno solo dei presunti correi – affermasse che il reato non sussisteva. Un giudizio arduo da consegnare su uno spicchio della vicenda, anche se non deve sottacersi che – nell’impostazione dell’accusa palermitana – la posizione dell’ex ministro Mannino era strategica, quasi decisiva. Tolta l’architrave il muro traballa e, infatti, i pubblici ministeri hanno subito detto che ricorreranno in appello.

In secondo luogo, nelle prime dichiarazioni Mannino è stato prudente, ed esprimendosi a proposito della trattativa ha detto che «secondo lui» non è mai esistita. Vedremo come il processo principale si concluderà. Ci vorranno anni poiché è chiaro che né l’accusa né la difesa sono disponibili a rimanere inerti sulla decisione di primo grado, qualunque ne sarà l’esito. Si andrà in appello e poi in Cassazione se la prescrizione non arriverà prima e, a quel punto, cominceranno le stesse polemiche che hanno circondato la sorte del “prescritto” Andreotti, accusato, sempre a Palermo, di essere un mafioso.

È il destino di questo Paese quello di non riuscire mai a portare a compimento un processo importante senza dilaniarsi sulle formulette, sui cavilli e sugli incisi. Abolita l’assoluzione per insufficienza di prove nel lontano 1988, è rimasta la prescrizione a gettare un’ombra sull’imputato assolto. Una cosa che all’estero ci farebbe ridere dietro; soprattutto nei Paesi in cui il rito accusatorio, balbettato a stento nelle aule italiane, è nato e opera.

Così come per Andreotti, anche nel processo Trattativa la prescrizione segnerebbe la sconfitta dell’apparato giudiziario e la sua cronica incapacità di governare vicende complesse e risalenti nel tempo. Qualcuno sostiene che basterebbe allungare i termini di prescrizione per risolvere la partita. Ma nei paesi che non hanno la prescrizione o godono di termini più lunghi nessuno si sognerebbe di portare a giudizio fatti di decenni prima. Il tempo scolora i ricordi, coagula interessi, disperde documenti, impedisce l’acquisizione genuina e attendibile delle prove sia per i pubblici ministeri che per la difesa. Il processo diviene un azzardo, una partita sostanzialmente senza regole, esposta a qualunque manipolazione ed inquinamento: il teste riferisce una cosa che non è possibile riscontrare, verificare o controllare, perché è impossibile trovare tracce oggettive di ciò che dice.

Questo non vuole dire che si deve rinunciare alla verità e che si devono dimenticare fatti gravi per la vita delle persone e delle istituzioni; ma, piuttosto, che alla verità processuale si deve sostituire una verità storica o politica che, una società bene ordinata, può condividere ed accettare. Ecco la ragione per cui la Costituzione prevede le commissioni parlamentari d’inchiesta. Istituzioni che dovrebbero essere il luogo privilegiato per accertare quelle verità che processuali non possono più essere, ma in cui dovrebbe essere comunque possibile verificare le responsabilità politiche e storiche di uomini ed apparati da restituire alla collettività. Negli Stati uniti hanno avuto un ruolo fondamentale, da Al Capone in poi, nel denunciare i fenomeni criminali o le distorsioni del capitalismo americano. In Italia la sfiducia trentennale verso la politica e le istituzioni rappresentative impedisce un percorso di questo genere e si attende dalla magistratura che pronunci giudizi che non è più in grado di dare perché il tempo è il peggiore nemico della verità. Se si contano i condannati per voto di scambio dal 1992 ad oggi (una quindicina circa) verrebbe da concludere che non esistono relazioni tra mafia e politica. E questa è, ovviamente, una menzogna per la storia di questo Paese.