«Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» scriveva Lev Tolstòj. Lo stesso vale un po’ anche per i divorzi, ognuno doloroso e costoso, da molti punti di vista, a modo suo. La sentenza della Corte di Cassazione n. 11504/17 sull’assegno di mantenimento al coniuge dopo la separazione e la successiva ordinanza del Tribunale di Milano del 22 maggio, che a essa si richiama, hanno fatto discutere. E hanno provocato reazioni molto diverse anche tra le studiose. Roberta Carlini ha accolto favorevolmente la sentenza, vedendovi un riconoscimento dei cambiamenti nei modelli familiari e un invito alle giovani donne a non delegare a un marito la realizzazione delle aspirazioni di benessere economico e di realizzazione personale. Altri interventi, ad esempio quelli di Chiara Saraceno e Linda Laura Sabbadini, hanno fatto notare che la sentenza si richiama a un’idea astratta di parità di genere nella coppia. Un’idea che soprattutto non tiene conto del contributo del lavoro di cura non pagato della moglie considerata «non lavoratrice», concreto strumento di conciliazione famiglia-lavoro per gli uomini (e, non va mai dimenticato, di supporto fondamentale e risparmio per il sistema di Welfare). In linea di principio, tale contributo va riconosciuto anche all’interno di famiglie che, grazie alle loro condizioni sociali ed economiche, possono contare sull’aiuto retribuito di cuochi, giardinieri, babysitter e quant’altro; esso è infatti parte del processo di valorizzazione reddituale e patrimoniale della famiglia, sia in quanto fornisce sostegno emotivo ai suoi componenti, sia in quanto concorre alla costituzione del capitale sociale e reputazionale, fattore non meno importante del capitale economico nella carriera di un uomo.
Indubbiamente il tema sollevato dalla sentenza è molto complesso, tanto che appare difficile schierarsi nettamente a favore dell’una o dell’altra posizione. I processi d’individualizzazione propri della tarda modernità, ai quali sembra implicitamente richiamarsi Roberta Carlini nelle sue posizioni, rappresentano sicuramente un’occasione per le donne di affermarsi come soggetto indipendente e responsabile, così come auspicato dalla sentenza. Tuttavia non tutte le donne si trovano sullo stesso piano nel cogliere tali opportunità, per la diversità sia dei punti di partenza sia di carichi di cura e responsabilità familiari e dunque di possibilità concrete di far valere i propri meriti lungo il corso della vita. Anzi: gli studi attuali sulle disuguaglianze convergono nel mostrare come la struttura di classe di alcuni Paesi industriali avanzati, compresa l’Italia, ricalchi sempre più quella della società inglese dell’inizio dell’Ottocento, nella quale più che al merito l’ascesa sociale era legata alla disponibilità di patrimoni ereditati e matrimoni di convenienza. Se collocate su tale sfondo Lisa Lowenstein e Veronica Lario, che percepiscono o aspirano ad assegni di mantenimento stratosferici, appaiono tanto lontane dalle varie Concettina e Oxana che in futuro potrebbero essere giudicate sulla base degli stessi principi, quanto lo erano le figlie del ricco mister Bennet dalla servitù di campagna narrata da Jane Austen.
Altro punto controverso è la definizione operativa del concetto di «non indipendenza economica». Prescindendo dal caso specifico da cui la sentenza è scaturita, nella formulazione adottata si dà forza ad una rappresentazione della donna «scroccona» che vive alle spalle dell’ex marito, tanto priva di fondamento quanto quella speculare e diffusa della «Welfare queen». A dimostrare che si tratta di stereotipi bastano pochi semplici dati dell’Istat che documentano come nel solo Mezzogiorno, tra il 2008 e il 2013, le famiglie che possono contare sul solo salario della moglie/madre sono aumentate di 154 mila unità. Potrebbe trattarsi di un’espressione dei processi virtuosi prima richiamati, se non fosse che alle donne in questione è stato richiesto di compensare la disoccupazione del coniuge (nello stesso periodo le famiglie nelle quali l’unico percettore di reddito da lavoro è maschio sono diminuite di 90 mila unità). In alcuni casi, poi, nelle famiglie rette da donne il partner maschile non solo non garantisce l’apporto di un reddito, ma spesso rappresenta un problema aggiuntivo perché gravemente depresso per la perdita del lavoro, perché in carcere, perché dipendente da sostanze o dal gioco: insomma perché per motivi diversi è consumatore e non produttore di risorse. È il processo che la letteratura definisce di «femminilizzazione della riproduzione sociale», che conduce alla povertà quando la «autoresponsabilità economica di ciascun coniuge» diventa un invito, o un obbligo, ad arrangiarsi da soli.
Dunque anche limitandosi all’apporto di tipo economico, il ruolo della donna all’interno della famiglia è molto spesso assai più rilevante di quanto il nostro ordinamento sembra riconoscere. A prescindere dal caso particolare che ha generato la sentenza, andranno in futuro prese in considerazione di volta in volta le concrete condizioni economiche e sociali familiari, nonché le caratteristiche della domanda di lavoro, l’offerta locale di servizi di conciliazione, le condizioni di accesso ad abitazioni pubbliche e la disponibilità di aiuti per famiglie in difficoltà. In caso contrario si avrà solo un aumento del rischio di povertà di chi ha avuto la sventatezza di formare una famiglia.
Riproduzione riservata