Siamo ormai a ridosso dell’avvio dell’anno scolastico e, da questa settimana, le studentesse e gli studenti italiani rientreranno a scuola per i corsi di recupero. In alcuni casi a distanza, in altri in presenza. In altri ancora, questa fase verrà affrontata con l’avvio vero e proprio della scuola, quindi rimandata di qualche tempo ancora. Tutto in conformità con il Piano di Integrazione degli Apprendimenti (Pia) predisposto dal Collegio dei Docenti al termine dell’anno scolastico.
L’attenzione dei media generalisti si è concentrata sostanzialmente su alcune questioni tutto sommato marginali o scandalistiche: banchi singoli e sedute innovative, appalti, tempistiche nelle consegne, supposte ritrosie degli/delle insegnanti a rientrare a scuola o a fare i test sierologici, mascherine sì/ mascherine no. E via continuando. Molto raramente si è parlato di pedagogia e didattica, nel migliore dei casi si sono date informazioni, in particolare sulle norme emergenti dai documenti emessi o adottati dal ministero dell’Istruzione e istanziati nelle singole istituzioni scolastiche autonome con regolamenti e circolari attuative.
Il primo problema serio che si pone sul piano concreto del lavoro che gli/le insegnanti saranno chiamati/e a realizzare è, invero, quello della scelta didattica. Ritornare alla lezione frontale (“dialogica”, scrivono pudicamente alcuni docenti nella propria programmazione) oppure aderire a didattiche attive. Nessuno, tranne qualche dirigente attento e propositivo, ha ragionato sull’origine dell’attributo “innovative” agganciato al sostantivo “sedute”. Si tratta infatti di strumenti utili per trasformare l’aula e la didattica da quella frontale, nella quale tutti ascoltano l’insegnante (strategia inevitabilmente fallimentare se pervasiva) a quella laboratoriale e cooperativa, nella quale la varietà di azioni e attività tiene alto il livello di attenzione e di motivazione. Le rotelle non servono certo agli scopi evocati da tanta letteratura social, ma a favorire assemblaggi di gruppi coinvolti nel cooperative learning. Immaginiamo una classe di 25 persone composta da 5 gruppi di persone. Un coordinatore (che direziona i lavori dei singoli orientandoli allo scopo assegnato), un relatore (relazionerà al grande gruppo e/o “verrà interrogato”), un verbalizzatore (incaricato di produrre l’output che può essere una pagina di appunti, una presentazione, una mappa concettuale, un sito web…). Tipicamente gli altri due giocano il ruolo di jolly (supporto ad uno dei tre succitati, quando ce ne sia bisogno per qualsivoglia ragione) o di esecutori (sono orientati al compito o al gruppo, nelle evoluzioni più raffinate della tecnica). Sembra evidente che in una scuola abituata ai banchi posizionati “in ascolto” dell’insegnante, per marcare una differenza a volte siano necessari nuovi strumenti, anche se posizionare i vecchi banchi ad isola non è né difficile, né vietato se non dalle proprie prevenzioni o cecità. Ma non c’è solo il cooperative learning, si potrebbero citare altre strutture didattiche che si appoggiano su piccoli gruppi come la semplice discussione, il jigsaw, la peer review, il gioco di ruolo, lo studio di caso, la piramide e il brainstorming. Si tratta di tecniche ben poco diffuse: oggi sono ancora almeno possibili?
Dopo la prima fase della didattica a distanza (Dad), superati i limiti delle proprie fobie tecnologiche e, nel tempo, avanzate anche le tecnologie medesime sulla base dei feedback di un loro diffuso utilizzo, gli/le insegnanti italiani/e si sono subito resi/e conto del fatto che sei ore di videolezione non erano materialmente possibili. È venuta in aiuto la normativa, che in estrema sintesi ha imposto una riduzione a 20 ore settimanali di lavoro al videoterminale, per convincere i più riottosi a immaginare altre strade, o a conformarsi a quelle indicate dal Collegio dei Docenti, e altre strade autonomamente qualcuno aveva cominciato a percorrere. Lezioni intermittenti, con pause di elaborazione personale, riduzione del modulo orario, elaborazioni asincrone con conseguenti feedback degli insegnanti (la Dad non è “mera somministrazione di compiti a casa” ammoniva la nota 388 firmata da Marco Bruschi), elaborazioni individualizzate o personalizzate. Vero è che, in tempi di lockdown, gli/le insegnanti guardavano poco l’orologio, riversando sul lavoro un’attenzione che non potevano spendere altrove, ma ciascuno è evoluto verso consapevolezze più professionali, specie quando ci si è resi conto che le interrogazioni online potevano essere mera forma. Lo sono, troppo spesso, anche in presenza perché la didattica “Ssid” è ancora molto praticata: “spiego, studi, interrogo, dimentichi”, solo che nella Dad i sotterfugi adottati dalle studentesse e dagli studenti hanno mostrato, almeno ai più attenti, quanto il re fosse nudo.
Nelle prossime settimane, quindi, arriveranno banchi singoli e sedute innovative, ma cosa ce ne faremo? Inizialmente avranno il mero scopo di ottimizzare la capienza delle aule consentendo il distanziamento fisico necessario (16 persone invece di 12 nella prima aula che ho misurato quest’estate), ma come evitare il “distanziamento sociale” in classe? Come evitare l’isolamento tra le persone, tutte orientate all’attenzione del verbo, ignorando le neuroscienze che ci spiegano che l’attenzione focalizzata sfugge ogni cinquanta secondi circa? Ancora una volta ci vengono in soccorso le tecnologie e gli strumenti digitali che verranno adottati nella didattica digitale integrata (Ddi). Antonio Fini, dirigente scolastico dell’IC Sarzana, ha denunciato l’aggressione alla Dad, così feroce da imporre un cambio di nome, spiegando che “stiamo segando il ramo dell’albero sul quale potremmo doverci sedere”. Ma al netto dei naturali rimbalzi psicologici che imporranno a molti un rassicurante ritorno alle abitudini precedenti, ancora una volta i più attenti si accorgeranno che nella didattica mista, possibile nelle scuole secondarie di secondo grado, non sarà possibile costringere gli studenti e le studentesse lontane a una mera fruizione della lezione anche se, a questo giro, le alternanze potranno consentire la presenza per tutta la mattina, dovendo garantire il monte ore per tutti e per tutte. E allora i gruppi potranno essere formati con studenti e studentesse che lavorano in classe e a casa con gli strumenti collaborativi oggi fin troppo noti e “regalati” dalle multinazionali del software, dalle case editrici o disponibili nel software libero.
Domandavo poco più sopra se siano ancora possibili, rispettando il distanziamento fisico in classe, le pedagogie attive. Lo sono se si accetta che in classe gli studenti e le studentesse siano coinvolti in attività diverse, se si favorisce il fatto affrontino nel corso della “lezione” più modi di stare in classe (non solo “nell’ora di ginnastica o di religione”, come cantava Battiato). Tecnologie al servizio delle pedagogie attive saranno necessarie quando ci renderemo tutti conto che l’immobilità forzata è impraticabile, ma laddove siano le persone coinvolte in lavori di gruppo che “svegliano” le persone in classe e quelle fuori, dove cioè ci sia partecipazione, lo stare fermi sarà meno pesante, meno problematico; meno drammatico, persino.
L’alternativa all’evoluzione didattica sarà naturalmente la catastrofe. Studentesse e studenti prigionieri sul posto, registrini con lunghi elenchi di persone che vanno ai servizi per sgranchirsi, inevitabile allentamento delle distanze, alto livello di litigiosità, contrasti e negoziazioni infinite per terminare, a livello generale, nel successivo lockdown. Perché non possiamo nasconderci il fatto che il rientro a scuola è necessario, ma anche impegnativo e rischioso.
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