Recentemente, abbiamo assistito al papa che commenta una lettera paolina rivelando un senso di emancipazione del cristianesimo sull’ebraismo, a un politico che scrive un tweet dove ritiene che il messaggio religioso ebraico sia qualcosa di superato dal cristianesimo, a commenti sul Vangelo della domenica pubblicati da quotidiani nazionali in cui Gesù è presentato in un «processo di superamento» del passato giudaico. Per non parlare del «rumore di fondo» di sedicenti cristiani che continuamente pubblicano post sui social network rivendicando la preminenza della propria religione sull’ebraismo. È lecito chiedersi se ci sia un filo comune che colleghi questi episodi. Forse non è un antigiudaismo esplicito, che almeno a parole da decenni viene pubblicamente condannato, ma una sua forma strisciante, di certo non meno pericolosa.
Ma cosa si intende quando si parla di antigiudaismo? A livello terminologico, se per antisemitismo intendiamo l’odio razziale per il popolo e la cultura ebraici, per antigiudaismo dobbiamo intendere l’ostilità, principalmente di matrice cristiana, fondata su teorie teologiche e alimentata da pregiudizi verso la religione ebraica (definita giudaismo dal post-esilio babilonese). Il filosofo e teologo Piero Stefani caratterizza l’antigiudaismo secondo tre aspetti: è un pensiero che propone una visione distorta e stereotipata della religione ebraica, sostiene che Dio ha abbandonato gli ebrei in favore dei cristiani, considera l’aver rifiutato la messianicità di Gesù meritevole di una punizione divina per gli ebrei di ogni tempo. La sua origine può essere fatta risalire già al II secolo d.C., a partire dal pensiero di alcuni padri della Chiesa, ma ebbe particolare sviluppo quando il cristianesimo diventò religione di Stato, con l’editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio nel 380 d.C. Così si passò dalle idee alle persecuzioni già nell’Impero romano ormai cristiano. Pensiamo poi, ad esempio, al massacro operato dai crociati in Renania nel 1096, alle espulsioni dagli Stati europei nei secoli successivi, al trattato «sugli ebrei e le loro menzogne» di Lutero o alla costituzione dei ghetti nel XVI secolo, fino ad arrivare ai pogrom russi tra Ottocento e Novecento, e infine alla Shoah.
Il cristianesimo così si sarebbe auto-compreso come religione universalista, in contrasto con l’ebraismo, considerato religione particolarista e legalista
Tale intolleranza religiosa ha avuto tra i principi fondanti la cosiddetta «teologia della sostituzione» e l’accusa di deicidio rivolta agli ebrei di tutti i tempi. Per sostituzione si intende l’idea che Dio abbia stabilito in Gesù una nuova alleanza con i cristiani, esautorando gli ebrei. Ciò proviene da un’interpretazione ideologica della Lettera agli ebrei e altri passi neotestamentari. Il cristianesimo così si sarebbe auto-compreso, emancipandosi dalla vecchia e superata alleanza, come religione universalista e della grazia, in contrasto con l’ebraismo, considerato religione particolarista e legalista. Lo storico Jules Isaac ha definito l’insieme di queste teorie con l’espressione «insegnamento del disprezzo». Alle idee teologiche si aggiunsero anche pregiudizi che mostravano gli ebrei come immorali, profanatori di ostie, avvelenatori di pozzi e diffusori della peste, uccisori di bambini utilizzati per i sacrifici rituali pasquali. È emblematico, a tal proposito, il caso del Simonino di Trento (1475). Della morte di questo bambino vennero incolpati sommariamente gli ebrei. Quindici vennero giustiziati e il resto della comunità espulso dalla città. Il culto di tale martire cristiano fu abolito, perché si dimostrò l’infondatezza delle accuse, solo nel 1965.
Un esempio di come l’antigiudaismo fosse radicato nella prassi della Chiesa cattolica è quello della liturgia del venerdì santo in cui si pregava per i «perfidi ebrei», evitando anche di inginocchiarsi, e quindi ripetere il gesto compiuto con senso di scherno dai giudei durante la passione di Gesù. Anche l’accusa di deicidio nel Novecento era ancora così diffusa che padre Agostino Gemelli, al tempo rettore dell’Università cattolica, riguardo alla morte del socialista Felice Momigliano si augurava che come lui «morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei giudei che hanno crocifisso Nostro Signore». Ciò era supportato, inoltre, da tesi come quelle degli studiosi Ferdinand Baur e Wilhelm Bousset, all’epoca predominanti, secondo cui, per il primo, Gesù si era emancipato dal giudaismo collocandosi nel percorso verso una «religione assoluta», mentre, per il secondo, che la messianicità di Gesù non avesse nulla a che vedere con le attese messianiche giudaiche.
Una decisa svolta avverrà solo dopo la Shoah, quando tra le Chiese cristiane si tentò di prendere consapevolezza delle responsabilità della diffusione dell’antigiudaismo. È il caso quindi di citare alcune figure come Jules Isaac, Giovanni XXIII, John Meier e Ed Parish Sanders, che si sono prodigati sia in campo confessionale sia in campo accademico perché si aprisse un percorso di dialogo da una parte e una riscoperta autentica delle origini ebraiche del cristianesimo dall’altra.
Nel 1960, l’incontro di Giovanni XXIII con Jules Isaac, che auspicava la necessità di una riforma dell’«insegnamento del disprezzo», portò il papa a far preparare un testo sulle relazioni tra Chiesa e popolo ebraico da presentare all’assemblea conciliare del Vaticano II, da cui scaturì il decreto Nostra aetate. Ciò che però sarebbe dovuto confluire in un intero documento, a causa delle frange conservatrici dei padri conciliari fu relegato a un solo capitolo all’interno del decreto. In esso, comunque, vi si può leggere l’invito a promuovere una mutua conoscenza e stima tra ebrei e cristiani, a partire dagli studi biblico-teologici e dal dialogo. Da qui provengono, ad esempio, la diffusione delle neonate amicizie ebraico–cristiane, la nascita di esperienze come i colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli, nonché un rinnovato sforzo in campo accademico per riscoprire le origini del nascente movimento dei discepoli di Gesù, facendo luce su cosa realmente fosse il giudaismo del I secolo d.C.
Studi specialistici ormai sostengono che il Gesù storico fu sempre e interamente un ebreo da collocare nel contesto della Legge giudaica
L’abbandono della «teologia della sostituzione» fu segnato dalla demolizione di teorie anacronistiche quali la «contrapposizione all’ebraismo» come carattere fondante il cristianesimo e la comparazione del messaggio del Nuovo testamento con una visione distorta e caricaturale del giudaismo rabbinico. Scoperte archeologiche come quelle di Qumran hanno dimostrato, infatti, che il giudaismo del «Secondo tempio» (VI secolo a.C. – I secolo d.C.) fosse plurale e non assimilabile né a quello rabbinico, che nascerà solamente nel II secolo d.C., né a una sua rappresentazione stereotipata. Grazie, poi, a lavori di specialisti quali Meier e Sanders, e ai successivi studi, si è giunti a sostenere che il Gesù storico fu sempre e interamente un ebreo da collocare nel contesto della Legge giudaica (J. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Queriniana, 2001); e allo stesso modo a demolire, come fece Sanders (in Paolo e il giudaismo palestinese, Paideia, 1986), l’immagine tradizionale del giudaismo come una religione legalistica. Ricostruire il panorama giudaico del I secolo d.C. e riscoprire l’ebraicità di Gesù e Paolo hanno permesso di ricollocare le origini del cristianesimo all’interno del giudaismo e non in sua opposizione. Così anche il corpus neotestamentario, seppur con la propria originalità, sarebbe pienamente giudaico e radicato nel dibattito giudaico del suo tempo, allo stesso modo degli scritti «settari» di Qumran, delle opere di Giuseppe Flavio o di Filone. Le recenti ricerche, quindi, hanno mostrato la fallacia della «teologia della sostituzione», indicando come il cristianesimo nella sua essenza originaria non fosse una sostituzione di qualche cosa di cui era pienamente parte. A livello internazionale si sono ormai consolidate importanti collaborazioni tra specialisti di giudaismo e di Nuovo testamento che hanno portato all’affermarsi di nuove prospettive di studio. Pensiamo, per citarne alcuni, agli studi di Mark Nanos, Paula Fredriksen e Gabriele Boccaccini.
Perché però in Italia non si traducono questi studi o si fa fatica a recepirli? Si potrebbe pensare che in alcuni ambienti, anche accademici, in particolare di tipo confessionale, si faccia fatica ad accettare l’origine giudaica del cristianesimo. Si ha quasi l’impressione che demolire l’idea di emancipazione del cristianesimo dall’ebraismo tolga qualcosa al messaggio evangelico. C’è forse allora un rifiuto della radice giudaica della cultura cristiana? Sono domande aperte, ma devono continuare a interrogarci. Forse in certe espressioni o reticenze c’è qualcosa che va al di là del voler affermare la supremazia della propria religione. Forse c’è un rigetto di radici che non vengono riconosciute come proprie e perciò rifiutate. Si tratta non tanto di accettare il giudaismo come alterità fuori da sé, ma prima ancora di accettare la radice giudaica del cristianesimo stesso.
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