“E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Se al Lido di Venezia vi fosse Franco Battiato, che è anche regista, sarebbe presto detto lo stigma culturale della 69.ma Mostra internazionale d’arte cinematografica. Il crepuscolo immalinconisce e angoscia buona parte del “primo mondo” – l’America, l’Europa –, non fosse altro che per la perdita del lungo primato postbellico. L’Occidente è in crisi perché stanco e non viceversa. Se un’inedita Angela Merkel in panni antiglobalisti ha sentenziato che “i mercati non sono al servizio dei popoli”, il cinema in Laguna si dedica piuttosto ai fenomeni carsici, non sempre evidenti con lo sguardo dell’attualità. Sul grande schermo balenano ragione e sentimenti nella crisi di oggi, così crepuscolare da inibire persino le maiuscole della Grande Depressione del 1929.
La tv asseconda l’eterno quotidiano e internet ci culla nell’illusoria connessione col prossimo che qui il film statunitense Disconnect di Henry-Alex Rubin mostra in tutta la sua potenziale dissennatezza: pirateria bancaria, false identità Facebook, manipolazioni in chat, violenze introspettive che rischiano di irretire e dannare i più giovani. Mentre l' "occhio del Novecento”, come Francesco Casetti definisce il cinema, prova ancora a coltivare l’esperienza della modernità indagata da Marshall Berman (Il Mulino, 1985), proiettando – letteralmente – verso il domani sia il canone della memoria sia la vertigine del non visto.
Alla ribalta della Mostra veneziana che sta per chiudersi affiorano temi rimossi o tracce di là da venire, bagliori nel/contro il tramonto occidentale (un pleonasmo?). Non manca il malessere radicale degli “altri”, come nel terribile e magnifico Pietà del coreano Kim-Ki duk sul deserto etico di una delle cosiddette “tigri asiatiche”: crudeltà, dolore, echi incestuosi, segreti a lungo celati pur di recuperare il denaro (è il capitalismo, bellezza). Una laconica accettazione o pratica di ogni sopruso, cui mette fine soltanto il suicidio del protagonista aguzzino per conto degli usurai, con una lunga scia di sangue sotto un camioncino che s’allontana nell’alba livida delle periferie di Seoul. Dice Kim Ki-duk: “Finiremo per essere una moneta agli occhi degli altri e per frantumarci sull’asfalto. Mi rivolgo al cielo, con una fede carente”.
A proposito di deficit fiduciario, The Master dello statunitense Paul Thomas Anderson (Magnolia, Il petroliere) è giunto al Lido di Venezia con la fama della biografia romanzata di Lafayette Ron Hubbard (1911–1986), il fondatore di Scientology. Ma la diatriba annunciata fra i seguaci e i critici della setta di Dianetics non ha trovato argomenti dopo la visione. Invero The Master, più che un allievo in cerca del maestro, mette in scena il dramma speculare e contrario: un guru minacciato dall’assenza del discepolo che è un reduce alcolizzato della seconda guerra mondiale. È la malinconia del capo orfano dell’adepto, cui non sa più insegnare “come trovare l'alba dentro l’imbrunire”. Girato fra i grandi spazi californiani e l’Inghilterra e retrodatato agli anni Cinquanta, The Master illumina una dialettica psicologica, nondimeno geopolitica: il Nuovo continente stenta ad aiutare il Vecchio. Metaforicamente, l’America cominciò allora a perdere il fascino del paese-guida, l’anelito profetico, il dono della presunta infallibilità (il Vietnam e l’omicidio di Kennedy sono dietro l'angolo).
D’altronde, quanti errori e perversioni, o addirittura crimini, si possono commettere nel nome del carisma, sia esso grazia soprannaturale o, con Max Weber, potere straordinario? Ha fatto discutere a Venezia Paradise: Faith del viennese Ulrich Seidl. Al centro dell’attenzione le scene choc di autoerotismo con un crocefisso da parte di una fanatica cattolica. Una tenebrosa devozione che infine si traduce in una ribellione al Cristo, la cui effigie viene frustata e insultata. Rifulgono di schiettezza e nitore, al contrario, le Clarisse dell’omonimo documentario di Liliana Cavani. Sono monache giovani e anziane sorprendenti per il coraggio e l’ironia, non disdegnano accenni di “femminismo” e rivendicano la pratica dell’Invisibile, che è una delle essenze da cui laicamente muove il cinema. Esso è infatti una forma di cittadinanza visionaria che accomuna autori e spettatori, come ha ricordato il novantenne “citizen Francesco Rosi” ritirando il Leone d’oro alla carriera, ovvero è una forma di scepsi, un esame critico che deriva dall’osservazione e tende a escludere le conclusioni perentorie.
Après mai del francese Olivier Assayas è un’altra sfumatura dell’imbrunire albescente. Un viaggio autobiografico negli anni Settanta della rivolta giovanile contro qualsiasi autorità, il cui titolo allude alla stagione seguita al cruciale maggio 1968 degli studenti parigini. Fu forse l’ultima fascinazione europea, con la sua confusa capacità di sincretismo, sul resto del mondo. La politica, il ciclostile, le botte con i poliziotti, i settarismi di ogni risma (maoismo, trotzkismo, marxismo-leninismo e molti altri “ismi”), ma anche la musica rock, i filmini sulla guerra in Laos, i libri sul Fiume Giallo, gli arazzi di Alighiero Boetti a Kabul, le “canne” e l’eroina, gli amori liberi e le gelose di sempre, l’aborto... Insomma, l’anelito cosmopolita di una generazione sveglia che sognò l’imagination au pouvoir, ritrovandosi anni dopo a gestirlo o a subirlo, quel potere.
Adesso a far testo e titolo simbolico al pari di Buongiorno, notte (2003) è Bella addormentata di Marco Bellocchio con le sue storie che si consumano negli ultimi sei giorni di Eluana Englaro. Non un film mimetico del “caso Englaro”, bensì un saggio delle risonanze e delle divisioni, tragiche sebbene talora grottesche, che un dilemma di tale portata produce nel nostro orizzonte. Con un “risveglio” nell’epilogo, la volontà di vivere della tossicodipendente autodistruttiva interpretata da Maya Sansa, che autorizza l’Italia a sperare di non essere ai titoli di coda.
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