Commemorare è forse una delle imprese più ardue per le nostre società contemporanee. Perché non si tratta solo di non far svanire la memoria di quanto accaduto, ma di renderlo in un qualche modo presente e accessibile alle generazioni che vengono. Racconto, silenzio, richiamo al cuore, partecipazione, distanza e prossimità allo stesso tempo, rispetto, devozione, momento pubblico e personale – ecco solo alcuni degli elementi su cui si articola ogni possibile commemorazione. Che rimandano, in un qualche modo, alla dimensione rituale del vivere insieme. Forse, proprio qui si può misurare la distanza tra gli Occidenti che si sono sviluppati sui due bordi dell’Atlantico, e tra la loro diversa messa in scena della democrazia. La capacità di celebrare snodi decisivi della coesistenza umana, sentendoli, proprio grazie alla ritualità, come qualcosa che tutti ci accomuna, che per un attimo ci fa sentire partecipi di un destino condiviso. Tutti comunque toccati, ben oltre i nostri personalissimi itinerari di vita.
Non solo l’immaginario collettivo, ma anche i vissuti dei singoli hanno subito una riscrittura profonda a partire da quella soleggiata mattina di quindici anni fa, l’11 settembre 2001. Qualcosa per cui eravamo impreparati, sia sul piano politico sia su quello culturale. E infatti è da quindici anni che balbettiamo senza aver ancora trovato le parole capaci di riorganizzare la qualità civile del nostro comune abitare questo mondo. Le religioni stesse si sono improvvisamente accorte di aver sopravvalutato la loro capacità di gestione del sacro nello spazio pubblico.
Ma anche le molte forme della laicità si sono rese latitanti, rimettendo alle fedi in toto il compito di sbrogliare la matassa in cui ci siamo trovati aggrovigliati. Senza accorgersi che la giustificazione religiosa della violenza, indebita e ingiustificabile, metteva a nudo una debolezza strutturale dell’umano vivere insieme dopo la fine della modernità. Proprio qui da noi, nei territori illuminati dell’Occidente, e non in qualche angolo remoto di arcaiche civilizzazioni. Debolezza che genera ed espone alla violenza, ben oltre ogni eventuale religiosa appartenenza. Negli affetti, nelle relazioni educative, negli atteggiamenti davanti al diverso e allo straniero. Basterebbe guardare alle cronache quotidiane per rendercene conto.
L’errore diabolico delle religioni sarebbe quello di fare leva su questa diffusa debolezza per continuare a coltivare lo spazio di un privilegio che esse non possono più permettersi. Questo vale, qui da noi, in particolare per il cristianesimo, le sue istituzioni e il suo sapere.
L’11 settembre ha riscritto una volta per tutte lo spazio delle teologie, non solo nel contesto accademico ma anche nella sfera pubblica del vivere insieme. Una teologia che guarda unicamente alla propria comunità religiosa è diventata in un attimo un relitto della storia
L’11 settembre 2001 ha riscritto una volta per tutte lo spazio proprio delle teologie, non solo nel contesto accademico ma anche nella sfera pubblica del vivere insieme. Una teologia che guarda unicamente alla propria comunità religiosa è diventata in un attimo un relitto della storia, dopo secoli in cui in questo modo aveva potuto esercitare contemporaneamente anche il proprio compito culturale in senso ampio.
Ma anche la scelta di prendere congedo dalle teologie confessionali per attestarsi al livello «neutro» dei religious studies rischia di lasciarci sguarniti. Perché questa forma di accesso e analisi dei fenomeni religiosi finisce proprio col mancare il nucleo incandescente di questa diffusa debolezza delle nostre società: quello della vicenda del soggetto, dei suoi affetti e delle sue persuasioni più profonde (fossero anche ingiustificate paure).
Mai come oggi la nostra società civile ha bisogno di buone teologie per ridisegnare la propria comprensione ed esercizio della stessa laicità, intesa come spazio di convivenza pacificata di quelle persuasioni che ci permettono di stare a galla nell’avventura umana di vivere. Teologie che sappiano riscrivere il fuoco della propria impresa; che, mentre coltivano il sapere della propria tradizione religiosa, sanno di avere un compito che va ben oltre di essa: quello dell’inserzione sociale delle persuasioni che ci tengono in vita e decidono dei nostri atteggiamenti pubblici. Impresa, questa, che le teologie non possono però mettere in atto da sole perché il quadro istituzionale, dentro il quale ci muoviamo, le pensa ancora unicamente in riferimento alle comunità religiose di cui esse rappresentano il sapere critico, e al riconoscimento della rappresentanza pubblica di queste ultime nello spazio comune del vivere.
È come se non ci fossimo accorti che l’11 settembre 2001 ha segnato anche la fine definitiva del modello del rapporto fra Stato, società civile e religioni che abbiamo ereditato dalla modernità. Solo una nuova alleanza fra questi tre soggetti può giungere a una riscrittura riuscita del senso civile, condivisibile al di là di ogni appartenenza, dei fenomeni e delle persuasioni religiose nella quotidianità del nostro vivere insieme.
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