Il cinquantenario della scomparsa di Nicola Chiaromonte, morto all’improvviso mentre saliva in ascensore alla Rai di Roma il 18 gennaio 1972, non sta passando inosservato grazie a un evento editoriale piuttosto sorprendente: la pubblicazione nell’augusta collana dei «Meridiani» Mondadori della raccolta delle sue opere, arrivata in libreria a fine novembre (Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura, a cura di Raffaele Manica, pp. CLVIII-1826). Sorprendente perché in una collana che in qualche misura si propone come un canone, non foss’altro per l’aspetto, l’ingente impegno editoriale sui singoli volumi e il prezzo conseguente (80 euro), non ci si aspetterebbe di trovare un autore pressoché ignoto ai più e intrinsecamente anticanonico.
Deprecare l’oblio che avrebbe investito Chiaromonte in questo mezzo secolo è un piccolo topos letterario. Non vi si sottrae il curatore del «Meridiano», che evoca il tempo degli anni Settanta «intriso di violenza ed alterchi» come inadatto ad accogliere e conservare il difficile pensiero di Chiaromonte. In realtà se morendo Chiaromonte non aveva lasciato che due libri, una raccolta di critiche teatrali (La situazione drammatica, 1960) e il bellissimo Credere e non credere (1971), uscito l’anno precedente in inglese con il titolo The Paradox of History, negli anni Settanta apparvero, curate dalla moglie Miriam, ben tre raccolte di saggi: gli Scritti politici e civili (1976), gli Scritti sul teatro (1976), e gli scritti filosofici e letterari di Silenzio e parole (1978); a queste va aggiunto, sempre a cura della moglie, The Worm of Consciousness, un’ulteriore silloge che compendia le linee tematiche delle tre italiane, uscita negli Stati Uniti nel 1976. Gli editori erano Bompiani, Einaudi, Rizzoli, non editori di nicchia: segno dello standing che Chiaromonte poteva conservare nella società colta; e tuttavia chi come chi scrive qui volle procurarsi quei libri una decina di anni dopo dovette rivolgersi alle librerie di remainders.
Alcune opere di Chiaromonte furono riproposte dal Mulino negli anni Novanta: erano senza dubbio anni più adatti, in cui la caduta del Muro favoriva l’emersione (o riemersione) di autori negletti o dimenticati
Vi fu poi negli anni Novanta una seconda mandata di riproposte, quella del Mulino, che iniziò con un’ulteriore antologia, Il tarlo della coscienza (1992), omonima ma diversa nei contenuti rispetto a quella americana, seguita da Credere e non credere (1993) e da una scelta degli inediti taccuini 1955-1971, Che cosa rimane (1995). Erano senza dubbio anni più adatti: la caduta del Muro favoriva (forse troppo poco) l’emersione o riemersione di autori negletti o dimenticati, si pensi a Gustaw Herling, a Margarete Buber Neumann e alle sue memorie di deportata in Siberia, a un libro come Il dio che è fallito, o a un irritante cold warrior come Arthur Koestler, di cui il Mulino pubblicò l’intera opera autobiografica. C’era posto anche per Chiaromonte, identificato alla grossa come esponente dell’anticomunismo democratico. Ma all’appello di quei ritorni in libreria risposero pochi fedeli, chi aveva conosciuto l’autore collaborando a «Tempo presente» come Enzo Golino o Corrado Augias, che si fece realizzare un estratto di Credere e non credere da donare agli ospiti di «Babele», il programma sui libri che conduceva in televisione. In concreto i libri fecero un magro risultato, e dopo una dozzina d’anni furono posti malinconicamente fuori catalogo.
Qualcosa s’era seminato, tuttavia; ma in piccoli gruppi come quello che fa capo alla rivista forlivese «Una città», che sulla fine del decennio prese a lavorare su Chiaromonte, con convegni e pubblicazioni (tra queste il suo sorprendente epistolario con un’amica suora: Fra me e te la verità. Lettere a Muska, 2013), ma anche la cerchia di Goffredo Fofi che nel 1996 organizzò un convegno su L’eredità di «Tempo presente» e con le Edizioni dell’asino propose a cura di Vittorio Giacopini una nuova scelta di scritti (Il tempo della malafede e altri scritti, 2013). Poi dalla ricerca accademica sono venuti i primi contributi di peso: nel 2012 Marco Bresciani, dopo una monografia su Andrea Caffi, ossia colui che era stato la figura di riferimento decisiva per Chiaromonte, pubblicava il loro corposo epistolario («Che cosa sperare»), e nel 2017 usciva la splendida biografia Nicola Chiaromonte di Cesare Panizza, primo a utilizzare estensivamente le carte Chiaromonte depositate dalla vedova nella Beinecke Library della Yale University. Poi è stata la volta del saggio di Filippo La Porta Eretico controvoglia (2019) e nel 2021 della traduzione italiana del carteggio Camus-Chiaromonte, testimonianza di un altro rapporto decisivo.
Insomma non si può dire veramente che Chiaromonte sia uno scomparso, un intellettuale che avrebbe pagato la sua eresia con la sparizione «in vita e in morte», come si è letto di recente. Né che sia stato un «maestro della dissipazione» (come viceversa Caffi) per aver disperso la sua opera in riviste di scarsa diffusione. L’impressione piuttosto è che, in vita e in morte, Chiaromonte per la natura stessa della sua riflessione sia stato e sia autore destinato a un pubblico ristretto e che la sua conoscenza possa perpetuarsi fondamentalmente per conventicole di happy few, conquistati dal suo pensiero severo e radicale (nel senso dell’andare alla radice). Del resto lui stesso aveva in mente una cerchia precisa di lettori, con quel tanto di utopia libertaria che gli veniva da Caffi, ma anche dagli amici americani, una comunità di spiriti liberi separata dalla società, un’«arca», una «fratria». Un’«oasi», per riprendere un romanzo dell’amica Mary McCarthy che mette in scena un gruppo riparato in montagna a ricreare una società libera e giusta secondo le idee di un Fondatore ispirato a Chiaromonte.
Connessa all’utopia della piccola comunità «ragionevole e giusta» è la critica implacabile di un’età dove tanto lo Stato totalitario fascista, nazista e comunista (di cui già nel 1932 affermava «l’affinità… morfologica»), quanto la società di massa democratica producono una «collettivizzazione e meccanizzazione dell’esistenza collettiva» che per l’individuo è condizione di tirannia. La civiltà si definisce nell’ordine morale e i soli veri mutamenti si danno nella coscienza individuale, unico luogo dove tutto accade veramente. È l’individuo che conta: dalla caverna «non si esce in massa, ma solo uno per uno». Chiaromonte negava il primato morale della politica. Era allora «la crisi dell’uomo» il tema della sua riflessione. Non a caso scrivendo in morte di Camus riprodusse per intero gli appunti presi nel 1946 a una conferenza di quel titolo tenuta dall’amico a New York, dove è detto che il ruolo della politica è un ruolo secondario, quello di «faire le ménage et non pas de régler nos problèmes intérieurs» perché, se esiste, l’assoluto non è nell’ordine politico e non è questione di tutti, ma di ognuno.
Gli scritti di Chiaromonte, con la loro parola densa e profondamente seducente, sono uno scrigno di sapienza, a loro modo un’"oasi" di serietà, di confronto con il senso ultimo, anche di esame di coscienza per il lettore
La ricerca di Chiaromonte circa il senso si indirizzava per così dire a monte della politica: «in interiore homine habitat veritas». Ma anche «habitat deus». Un pensiero così radicale non poteva altro che sfociare nel sacro e sfiorare il tema di dio.
Gli scritti di Chiaromonte, ha osservato con intelligenza Manica, «sono pensati lentamente e vanno dunque letti secondo lo stesso passo che li ha generati». Con la loro parola densa e profondamente seducente, sono uno scrigno di sapienza, a loro modo un’«oasi»: di serietà, di confronto con il senso ultimo, anche di esame di coscienza per il lettore. Un livre de chevet per pochi felici. Per molti, mai.
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