Le reazioni indiane alla "questione marò". La vicenda dei due fucilieri italiani ha suscitato numerose e variegate reazioni nell’opinione pubblica indiana. Un primo dato, forse inevitabile, è l’alzata di scudi dei difensori dell’orgoglio nazionale dinanzi a quella che è apparsa come una nuova prova della protervia degli occidentali nei confronti di Paesi da loro considerati “del terzo mondo”. Le leggi internazionali, è stato più volte sottolineato con amarezza, nella pratica funzionano sempre a senso unico. Che cosa sarebbe successo se due militari indiani, in servizio su una petroliera indiana, avessero per errore ucciso un paio di pescatori italiani? Avrebbero forse ottenuto lo stesso regime carcerario di favore, o il permesso di rimpatriare perché è Natale? Diversi leader politici hanno poi tentato di sfruttare l’incidente a vantaggio della propria parte. Così i rappresentanti dello Stato confederato del Kerala hanno dapprima giocato con decisione la carta nazionalista, poi accusato il governo centrale di New Delhi di non aver fatto abbastanza per assicurare i militari italiani alla giustizia indiana.
Vi è inoltre la problematica specificatamente italiana, legata ai natali piemontesi di Sonia Gandhi, attuale presidente del Congress (il maggiore partito della coalizione al potere), e allo scandalo Bofors che alla fine degli anni Ottanta-Novanta aveva coinvolto l’allora premier Rajiv Gandhi e, tra gli altri, il rappresentante in India della Snam Progetti, Ottavio Quattrocchi. Nei primi anni di impegno politico, l’italianità di Sonia Gandhi aveva alimentato la propaganda dei suoi oppositori, primo fra tutti il Bharatiya Janata Party (partito della destra neo-indù); da diverso tempo, peraltro, si vede ormai in lei una leader in tutto e per tutto indiana. La Gandhi si è comunque tenuta precauzionalmente lontana dal caso marò, e soltanto nel momento in cui l’Italia ha lanciato il guanto della sfida, annunciando di non voler restituire i militari entro la data stabilita del 22 marzo, ha preso la parola per esigere il dovuto rispetto per l’India e le sue istituzioni.
Nella seconda metà del 2012 la vicenda era rimasta ai margini del dibattito pubblico, comparendo sui giornali soltanto per brevi aggiornamenti. Una vera esplosione di articoli e commenti si è avuta invece tra l’11 marzo scorso, data del “tradimento” italiano, e il 22 marzo, quando, con inopinato dietro-front, l’Italia ha restituito all’India Giuseppe Latorre e Massimiliano Girone. Esperti di diritto internazionale e costituzionale hanno tentato, codici e codicilli alla mano, di appurare se la competenza a giudicare i marò sia indiana o italiana, e se le limitazioni alla libertà personale imposte dal governo indiano all’ambasciatore Daniele Mancini a metà marzo avessero o meno un fondamento giuridico. I commentatori politici, da parte loro, hanno reiterato le critiche al governo italiano, reo di non aver mantenuto la parola data e giurata, come pure a quello indiano, in particolare al premier Manmohan Singh e al ministro degli Esteri Salman Khurshid in quanto incapaci di preservare il prestigio internazionale di una potenza economica come l’India. Qualcuno ha anche individuato nella lentezza della procedura giudiziaria indiana nell’arco del 2012 un elemento problematico per un governo politicamente fragile, come quello guidato da Mario Monti.
Nelle ultime settimane due importanti testate, “The Hindu” e “la Repubblica”, hanno inoltre costituito un comune forum online, che in poche ore ha raccolto numerosissimi commenti. Nel lamentare la perdurante incompletezza dei dati disponibili, molti hanno chiesto ai politici di lasciare che la giustizia segua il proprio corso, mentre altri, al contrario, hanno sostenuto che soltanto la politica può risolvere questa querelle. Alcuni commentatori indiani si sono poi domandati se l’improvviso voltafaccia italiano non sia dovuto a uno scambio segreto di favori (non dimentichiamo che negli stessi giorni è scoppiato lo scandalo Finmeccanica, che ancora una volta vede l’Italia al centro di episodi di corruzione coinvolgenti alti personaggi indiani). Il premier Singh è stato inoltre accusato di aver ceduto alle pressioni delle lobby commerciali, preoccupate di perdere una partnership importante, sacrificando in tal modo l’onore nazionale sull’altare del dio danaro. Altri ancora hanno criticato il ministro Khurshid per le “rassicurazioni” date agli italiani circa la sorte dei fucilieri, ipotizzando una lesione del principio costituzionale della separazione fra poteri dello Stato. Sia Singh che Khurshid hanno in seguito smentito pubblicamente queste supposizioni, ma la vicenda resta tuttora alquanto confusa.
Fin qui i commenti indiani. Le dimissioni del ministro Terzi, a parte il rincrescimento di circostanza espresso dall’omologo indiano, non sembrano aver destato particolare interesse. Il governo Singh ha intanto notevolmente rafforzato la propria immagine, avendo assicurato il rispetto dovuto alle istituzioni indiane, mentre l’opposizione è stata messa a tacere. La durissima presa di posizione dopo l’11 marzo, in evidente contrasto con il principio dell’immunità diplomatica stabilita dalla Convenzione di Vienna, appare indubbiamente inusuale per un governo guidato dal “mite” ottuagenario Singh. L’India ha però saputo riaprire, al momento cruciale, le linee della diplomazia ed evitato il rischio di una crisi internazionale dagli imprevedibili sviluppi. Tutto ciò testimonia del nuovo senso di sicurezza e autorevolezza di cui l’India ha dato prova nel confrontarsi con un Paese che, con tutte le sue debolezze e stranezze, è pur sempre uno dei principali membri dell’Unione europea.
Riproduzione riservata