Quale sia il ruolo degli intellettuali nella società è un problema di cui ciclicamente si torna a discutere, più o meno polemicamente. Se ne è parlato in occasione del processo intentato a Erri De Luca, dopo i suoi inviti a «sabotare» la Tav. I tragici fatti di Parigi hanno riportato al centro dell’attenzione Oriana Fallaci, già oggetto di furibonde polemiche nel 2001. È facile prevedere che altri nomi e altri dibattiti presto conquisteranno il centro della scena; del resto già ora gli esempi si potrebbero moltiplicare. Vale la pena però di osservare che in queste discussioni variano i giudizi e le prese di posizioni, e anche tanto, ma non l’idea che tutti si fanno dell’intellettuale. Da destra a sinistra, l’intellettuale è il grande nemico dei pregiudizi e delle ingiustizie; l’avversario dei facili conformismi; è la voce che cantando coraggiosamente fuori del coro risveglia le coscienze dei suoi concittadini. Che sia così e che spesso ce ne sia bisogno è difficile da negare. Ma non bisogna neppure sottovalutare i risvolti negativi.

Perché troppo spesso le veemementi polemiche degli intellettuali non portano molto lontano: invece di parlare del problema si parla di chi lo ha sollevato; e ci si divide pregiudizialmente, a volte ferocemente, tra ferventi sostenitori e altrettanto ferventi detrattori. Tra chi la pensava già prima come quel certo intellettuale, e quindi nella sua veemente denuncia trova conferma alle proprie idee, e chi lo critica proprio perché già da prima non era d’accordo. Ma non è questa l’anticamera del fanatismo?

Forse, in questo momento storico, gli intellettuali potrebbero fare altro, usare le parole diversamente: non solo o non tanto per denunciare, bensì per aiutare a capire. Per promuovere una migliore comprensione delle diverse idee in discussione. Favorire il confronto, interrogandosi sulle ragioni di ciascuna delle parti in causa e costruendo un terreno comune in cui le persone potranno confrontarsi, uomini con uomini. È giusto combattere per le proprie idee, ma è anche giusto imparare a rispettare quelle degli altri, che non necessariamente sono il sintomo di ignoranza, prevenzione o la manifestazione di interessi indifendibili.

Sembrerà a qualcuno che queste siano solo belle parole, impossibili da mettere in pratica. Altri invece vi troveranno tracce dell’atteggiamento pilatesco di chi si fa i fatti propri. La lettura del piccolo saggio di Amos Oz, Contro il fanatismo (Feltrinelli, 2004), mostrerà che non è così, che è proprio il contrario. Si tratta di tre brevi lezioni tenute in Germania all’indomani dell’attentato del 2001. Era il momento ideale per denunciare; molti lo stavano già facendo: contro l’Occidente, sazio e disperato, ormai facile preda dei nuovi invasori; contro l’Islam invasore; contro gli ipocriti e i buonisti che si nascondevano dietro un dito. Amos Oz segue la strada esattamente opposta.

Rifiuta scorciatoie, non semplifica, non pretende che tutto possa essere facilmente risolvibile. Scontenta tutti, insomma, insistendo sulla complessità dei problemi e sulla necessità che ognuno se ne renda conto. Ricorda l’importanza del compromesso, un’idea che «puzza», che fa pensare alla «mancanza di integrità», e che invece «è sinonimo di vita», anche se è doloroso, perché dove c’è vita ci sono compromessi (queste pagine sono particolarmente consigliabili a certi politici italiani, sia detto di passaggio). Non cede alle lusinghe di un pacifismo idealizzato, tipico di una certa Europa: bene fece chi si oppose a Hitler nel 1939 e folle sarebbe chi volesse oggi discutere con quelli dell’Isis. Ma rifiuta di fare di tutt’una erba un fascio ‒ «non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici»: ma si può ripetere questa frase in Italia, il Paese delle stragi di Stato? ‒ continuando a sottolineare la necessità di distinguere nel variegato mondo musulmano.

Nessun uomo è un’isola: è un verso di John Donne, ed è forse la migliore descrizione delle idee di Oz. Piaccia o non piaccia, nessuno può pretendere di fare a meno degli altri, perché le nostre vite, i nostri bisogni, le nostre attese sono tutti inestricabilmente legati insieme. Ma non siamo neppure molecole di terraferma, ognuno identico agli altri: ognuno ha diritto alla propria libertà. Siamo penisole, insomma, che devono imparare a convivere.

In fondo, è una battaglia per l’unico bene che possediamo, un uso corretto della nostra intelligenza, prima che altre forze prendano il sopravvento. Ed è una forma di rispetto per le persone a cui ci si rivolge. Non masse che attendono di essere guidate o risvegliate dai loro torpori conformistici. Ma persone capaci di intendere, di volere, di ragionare. Non sarà sempre così, ma lo è più di quanto non si creda. Dopo, del resto, quando è finito il tempo delle parole e dei confronti, che cosa rimane se non la violenza, lo scontro, il conflitto?

«Io non mi arrendo all’odio», ha detto David Grossman ai suoi contestatori. David Grossman, un altro intellettuale impegnato nel processo di pace in Medioriente: e, come Amos Oz o Abraham Yehosua, denunciato in Israele come traditore per aver ascoltato le ragioni dei palestinesi; osteggiato dai palestinesi perché ricorda le ragioni degli ebrei; contestato perché israeliano all’estero (in Italia, ad esempio). Non è facile andare controcorrente davvero.