La lunga marcia birmana. Una “lunga marcia” verso Nord di oltre duemila chilometri, dalla caotica Yangon fino alle zone rurali dello stato Kachin, al confine con la Repubblica Popolare Cinese. È stata questa la reazione della fiorente società civile birmana ai rumors riguardanti la presunta ripresa dei lavori per la costruzione della diga Myitsone, un progetto idroelettrico dai connotati faraonici, sponsorizzato con capitali cinesi e da realizzarsi sulle rive del fiume Irrawaddy. Alle prime luci di domenica 23 marzo alcune migliaia di attivisti si erano riversate nelle strade della vecchia capitale birmana, incamminandosi verso un itinerario che solcherà fino a maggio inoltrato l’entroterra del Paese, attraverso villaggi e comunità contadine, con la duplice finalità di sensibilizzare la popolazione rispetto ai rischi ambientali e sociali connessi alla realizzazione dell’infrastruttura, e, al contempo, di esercitare pressione sul presidente Thein Sein, affinché tenga fede alle promesse riguardo la sospensione del progetto.
Questi recenti sviluppi, infatti, rappresentano soltanto l'ultima puntata nella controversa storia della diga, una vera e propria saga che negli ultimi anni si è intrecciata in modo profondo alle enormi trasformazioni in atto in Myanmar, avviatosi anch’esso verso un percorso accidentato che dovrebbe condurlo dall’autoritarismo più sfrenato allo sbocciare di un crescente pluralismo politico. Formulato per la prima volta nel 2002, il progetto di Myitsone rappresentava soltanto una parte del mastodontico piano conosciuto sotto il nome di “Confluence Region Hydropower Project”, un sistema di sette dighe da realizzarsi nella parte settentrionale del Paese, dotata di notevoli potenzialità idroelettriche grazie alla presenza dell’Irrawaddy e dei suoi affluenti. Il piano, ideato e foraggiato dalle autorità cinesi con lo scopo di soddisfare la bulimia energetica del “Dragone”, limitandone la dipendenza dalle rotte di approvvigionamento marittimo, prevedeva la creazione di un network di centrali idroelettriche di nuova generazione, in grado di supplire ai fabbisogni birmani e di saziare, al contempo, una frazione consistente degli appetiti cinesi. I principali protagonisti del progetto erano la China Power Investment Corporation, compagnia di Stato cinese, e il Ministry of Energy Production birmano: la prima avrebbe fornito la quasi totalità dei 3,6 miliardi di dollari necessari alla realizzazione dell’opera, mentre a Naypyidaw sarebbero andati il 10% dell’energia prodotta e il 15% dei dividendi generati per un periodo di cinquant’anni, al termine del quale la proprietà delle infrastrutture sarebbe passata totalmente nelle mani del governo birmano. I termini dell’intesa riflettevano il tentativo cinese di formulare soluzioni “win–win” per entrambi gli attori interessati, fornendo i capitali necessari allo sviluppo di un regime duramente colpito da decenni di sanzioni occidentali e, contemporaneamente, assicurandosi una nuova fonte di approvvigionamento energetico, utile come volano per lo sviluppo della vicina regione cinese dello Yunnan, fra le più arretrate del paese. È in questa stessa ottica, peraltro, che vanno letti gli investimenti di Pechino nella costruzione di pipelines destinate a solcare il territorio birmano, bypassando così il “collo di bottiglia” rappresentato dallo Stretto di Malacca.
Tuttavia, dopo essere divenuta di dominio pubblico nel 2007, la questione della Diga Myitsone si è saldata a un altro fenomeno di primaria rilevanza, oltre al già menzionato incedere del Paese verso una transizione politica. La vicenda ha infatti risentito degli influssi del “ritorno” americano nella regione sotto le insegne della strategia del “Pivot to Asia”, e, più precisamente, dell’avvio di una nuova stagione nei rapporti sull’asse Washington–Naypyidaw, caratterizzata da un approccio di “engagement pragmatico” e dalla progressiva rimozione delle sanzioni da parte degli Stati Uniti. Il portato combinato di tali processi ha quindi offerto alla Birmania un’alternativa concreta alla dipendenza dall’orbita del potente vicino, culminando, nel settembre del 2011, con la storica decisione del presidente Thein Sein di dichiarare l’irrevocabile sospensione del progetto. Tale scelta, che espone le casse statali alle rilevanti compensazioni richieste dalla compagnia di Stato cinese, è chiaramente apparsa come un messaggio verso gli Stati Uniti e la comunità internazionale, che segnala la volontà di affrancarsi dall’immagine di regime cliente di Pechino. Ciò nonostante, l’avvicinarsi delle elezioni generali del 2015, che coincideranno con la fine del mandato di Thein Sein, come pure l’ostinazione dimostrata dalla controparte nell’opporsi a tale decisione, hanno rimesso nuovamente in discussione il futuro del progetto, scatenando le manifestazioni delle ultime settimane e mettendo a nudo le intrinseche fragilità della transizione birmana.
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