Ancora una volta la democrazia alla prova. Come stabilito da una sentenza della Corte Suprema keniana dello scorso marzo, i cittadini dello Stato africano sono convocati alle urne per il prossimo 3 marzo. Oltre che alla nomina del presidente e dei membri del Parlamento, l'imminente tornata elettorale provvederà ad assegnare per la prima volta gli incarichi di senatore e governatore di Contea, secondo le previsioni della Costituzione del 2010. Nell'eventualità in cui nessuno tra i candidati presidenziali si aggiudichi la maggioranza assoluta, né raggiunga il 25% dei voti in almeno 24 delle 47 contee del Paese, si svolgerà un ballottaggio in data da definirsi, sotto la presidenza ad interim di Mwai Kibaki.
Lo sguardo con cui una platea di soggetti variegati guarda alle elezioni di questo marzo non è privo di ragionevoli timori, radicati ben più a fondo del recente passato della Repubblica dell'uhuru. Il fenomeno di etnicizzazione della politica interna keniana, che ha raggiunto il suo apice – in termini sia di manifestazioni violente, sia di risonanza mediatica internazionale – in occasione del voto del 2007, si radica in un intrico di privilegi, espropriazioni e impunità che rende necessaria la sua contestualizzazione in senso storico, politico e, non ultimo, socio-economico. Le questioni più calde tra quelle sul tavolo del dibattito pre-elettorale appaiono ancora una volta l'emarginazione sociale, economica e politica di non pochi soggetti nel Paese e le aspre diseguaglianze che emergono dalla coesistenza di good – o piuttosto successful – practices e condizioni di estrema povertà. Se la distribuzione di risorse – materiali e simboliche – a livello nazionale seguirà, come frequente è stato in passato, le linee della frammentazione etnica dei 49 gruppi riconosciuti dalla Costituzione, riesce difficile non immaginare che altrettanto avvenga per le espressioni di dissenso e contestazione pre, infra e post elettorali.
Alle questioni di più lungo termine, relative alle dinamiche di sviluppo delle province keniane, si aggiungono due ordini di considerazioni di natura differente, ma ugualmente rilevanti in una lettura del quadro precedente la convocazione alle urne.
La prima riguarda le spinte secessioniste del Mombasa republican council (Mrc), organizzazione politica – non scevra da coinvolgimenti in vesti paramilitari – che mira all'indipendenza della cosiddetta “striscia delle 10 miglia”, un tempo appartenente al Sultanato di Zanzibar e annessa al territorio del Protettorato del Kenya nel XIX secolo. Un'area critica sotto il profilo della sicurezza regionale, in ragione della prossimità del confine somalo, ma anche sotto quello economico, a causa dei profitti derivanti dal turismo locale, nonché dal commercio fatto transitare per l'aeroporto di Mombasa, vero hub dell'Africa orientale, e il porto di Lamu, in via di completamento. Accusati di “attività criminali organizzate” nel 2010 e recentemente scagionati dalla Corte Suprema, i membri del Mrc hanno non soltanto dichiarato la propria astensione in occasione del voto di marzo, a delegittimazione del governo centrale, ma anche anticipato che coloro che hanno proceduto alla registrazione elettorale saranno considerati come “traditori”.
Il secondo punto, oggetto di ampio dibattito e marcata contestazione, è costituito dal processo cui quattro personalità keniane, tra cui i candidati alla presidenza Uhuru Kenyatta e William Ruto, sono sottoposte presso la Corte penale internazionale dell'Aia, con l'accusa di crimini contro l'umanità in occasione dell'escalation di violenza successiva alle elezioni del 2007. L'inizio del processo è previsto per il prossimo aprile: il riferimento ai potenziali sviluppi della competizione elettorale appare perciò evidente.
Pochi elementi che, tuttavia, sono sufficienti a far emergere le linee essenziali di un quadro politicamente, socialmente ed economicamente complesso, che porrà, ancora una volta, lo storico baluardo della democrazia in Africa occidentale a dura prova.
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