La parabola del Marino-marziano, che per settimane ci ha piacevolmente distratto da quisquilie come la riforma della Costituzione, ammette diverse morali-della-storia. Qui di seguito ne azzardo una facile facile: la politica la debbono fare i politici, perché richiede professionalità, competenze e sensibilità – fra le quali il senso del ridicolo – non necessariamente coincidenti con quelle richieste per emergere nella società civile. Altrimenti non si capirebbe come un uomo con il curriculum di Marino, per non parlare del suo cursus honorum, abbia potuto farsi stritolare così miseramente dagli ingranaggi della comunicazione. I quali, fra parentesi, sono proprio la parte più interessante della faccenda, irriducibile ai complotti immaginati dai supporter postumi del sindaco.
La parabola del marziano potrebbe essere raccontata come un remake di Mr. Smith va a Washington (1939): il film di Frank Capra, protagonista James Stewart, in cui un boy scout viene eletto al Congresso degli Stati Uniti, su iniziativa di politicanti senza scrupoli, si ribella ai suoi burattinai e vince. Già il fatto che Marino abbia perso ci avverte quanto il remake sia distante dall’originale: come fosse stato girato da Quentin Tarantino su sceneggiatura di Homer Simpson, con Mel Gibson protagonista e immancabile macelleria finale. Persino le somiglianze fra i due plot, voglio dire, permettono di misurare la siderale lontananza fra la democrazia quasi-ideale di Mr. Smith e quel che ne resta in Mr. Marino.
Anche Marino è stato boy-scout; anche Marino corrisponde all’identikit del politico dei sogni, tanto che qualcuno ancora si ricorda di essersi iscritto al Pd per poterlo votare alle primarie contro politici di lungo corso come Bersani e Franceschini; anche Marino è stato scelto come sindaco, prima che dai romani, da Goffredo Bettini, autentico king-maker capitolino; anche Marino aveva vinto, benché contro Gianni Alemanno, uno che ora trova da festeggiare quando non lo rinviano a giudizio per associazione mafiosa. Poi l’inenarrabile compilation di gaffes che l'ex sindaco ha inanellato dal 2013 a oggi è tutta farina del suo sacco, d’accordo. Ma qualcuno ha seriamente riflettuto sulle gocce che hanno fatto traboccare il vaso, consentendo di dimissionarlo?
Le gocce sono due: l’invito a Filadelfia smentito dal papa, e gli scontrini che hanno fatto ipotizzare il peculato. Ora, avendo lavorato anche a Filadelfia, Marino non aveva bisogno di farcisi invitare, meno che mai dal papa: al massimo, poteva evitare di andarci con la sciarpa tricolore, facendo sospettare che la porti anche sotto la doccia. Gli scontrini risalgono al 2013, al passaggio di consegne fra lui e Alemanno, con conseguenti pasticci negli uffici: nulla di più, nulla di meno. Insomma: il prossimo sindaco di Roma, venisse anche dai Cinquestelle, dovrà essere un politico di professione, avere rapporti di ferro con Vaticano e giornali e riorganizzare l’Ufficio Scontrini. Soddisfatte queste elementari condizioni, le buche nelle strade e i disservizi della metropolitana torneranno a essere semplicemente irrilevanti.
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