Capire la Russia. L’escalation in Ucraina, prima in Crimea e ora nell’Est del Paese, ha riportato al centro dell’attenzione le relazioni tra Occidente e Russia. Ovviamente – e, certo, con ragione – si è sottolineato l’aggressivo militarismo russo e il disegno imperiale di Putin. Pensare però che a Mosca governi un satrapo orientale, un nuovo Stalin o, addirittura, un nuovo Hitler, come sostiene l’ex presidente georgiano Saakashvili, non aiuta a comprendere le dinamiche della politica russa, un errore imperdonabile se si vuole contribuire a risolvere la crisi attuale, al di là della propaganda.
Putin viene spesso descritto come un ex agente del Kgb nostalgico dell’Unione Sovietica, e in effetti il presidente russo già tempo fa dichiarò che la fine dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. Tale affermazione non dovrebbe però essere tradotta come semplice voglia di revanche da parte di Mosca, quanto piuttosto come dato storico-politico. Se per l’Occidente la fine dell’Urss era la dissoluzione del pericolo comunista, per Mosca significava una riduzione del proprio spazio geopolitico che risaliva a ben prima dell’Ottobre del ’17, e la diaspora di milioni di russi.
Putin già tempo fa dichiarò che la fine dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo
Nonostante la sbandierata partnership tra Russia e Occidente e l’inclusione nel G8, Mosca ha vissuto i decenni successivi alla fine dell’Urss come un susseguirsi di umiliazioni: basti pensare all’adesione degli ex Paesi del Patto di Varsavia e perfino delle Repubbliche baltiche alla Nato, portando l’Alleanza Atlantica a poche centinaia di chilometri da San Pietroburgo; al bombardamento della Serbia, storico alleato di Mosca, proprio mentre Primakov volava verso Belgrado; alla discriminazione politica dei cittadini russi in Lettonia ed Estonia – con il tacito assenso della Ue, proprio mentre Bruxelles imponeva a Slovacchia e Romania di garantire i diritti delle minoranze magiare nei loro territori come condizione insindacabile per entrare in Europa; e infine alla programmata costruzione di uno scudo anti-missile in Polonia e Repubblica Ceca – insieme alla costruzioni di basi americane in Uzbekistan e Kirghizistan – che non ha fatto altro che aumentare il senso di accerchiamento dei russi.
La crisi ucraina si sviluppa dunque in questo contesto. La rivolta di Maidan, dove diversi politici occidentali si sono fatti vedere tra la folla, la successiva cacciata del governo eletto di Yanukovich – con Washington che si vanta di avere speso oltre 5 miliardi di dollari per «promuovere la democrazia in Ucraina» – e il riconoscimento immediato di un governo senza mandato popolare e che comprende elementi di estrema destra, normalmente sanzionati dalla Ue, sono la riprova, agli occhi di Mosca, della presenza di un disegno occidentale anti-russo.
Questo è inaccettabile per diverse ragioni: Putin ha basato molta della sua popolarità proprio sulla rivendicazione dell’orgoglio nazionale russo e sulla riproposizione del ruolo della Russia come grande potenza – almeno a livello regionale. Non a caso la netta maggioranza dei russi appoggia la reazione di Putin agli eventi di Kiev, come rilevato dal Centro Levada.
La Russia sostiene che i fatti ucraini siano stati una provocazione aperta contro Mosca e che la reazione del Cremlino sia di natura prettamente difensiva, e non certo offensiva
Inoltre, dal punto di vista geopolitico, un’Ucraina occidentalizzata (e che sigla un accordo non solo economico, ma anche strategico, con la Ue), mette a rischio la sicurezza stessa della Russia – e ben sappiamo come in passato altri Paesi, come ad esempio Stati Uniti e Israele, siano intervenuti direttamente nelle scelte politiche e militari di Stati sovrani confinanti – e non – per garantire la propria sicurezza. Quanto alla Crimea, se è vero che la secessione della regione contraddice le passate posizioni di Mosca sul separatismo, al Cremlino si fa anche notare che i precedenti di Kosovo e Mayotte dimostrano come sia la politica, e non il diritto internazionale, a determinare i limiti della sovranità e dell’irridentismo. D’altronde, come anche commentatori non certo imputabili di simpatie filorusse, come Jeffrey Sachs, e non solo, hanno sostenuto, è complicato ergersi a paladini del diritto internazionale dopo anni in cui lo si è volutamente ignorato.
Insomma, la Russia sostiene che i fatti ucraini siano stati una provocazione aperta contro Mosca e che la reazione del Cremlino sia di natura prettamente difensiva, e non certo offensiva. Per evitare che il muro contro muro si tramuti in conflitto, è necessario, come suggerito anche da Kissinger, che l’Occidente riconosca gli interessi russi nella regione. Di conseguenza un’Ucraina neutrale, come richiesto dal ministro degli esteri Lavrov, sembra un passo indispensabile per normalizzare le relazioni. Al contempo, la riforma costituzionale in senso federalista richiesta da Mosca potrebbe garantire il rispetto delle differenze etniche, linguistiche e culturali dell’Ucraina, evitare la ripetizione della destabilizzante politica di winner take all – secondo cui la maggioranza domina l’opposizione (e i primi passi del nuovo regime, dall’uso del russo, alla mano libera data alle truppe paramilitari, alla lustracija non lasciano presagire nulla di buono) e che rischia di portare alla guerra civile e al separatismo. Questo non vuol dire appeasment verso Mosca, quanto piuttosto un processo condiviso che garantisca gli interessi e le aspirazioni di tutti i protagonisti.
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