Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
L’aggressione russa è ingiustificabile, ed è la causa sufficiente del ramificato disastro che osserviamo. Non serve molta conoscenza teorica o empirica per raggiungere queste conclusioni, che sono anche le mie e mi paiono solide. Commentare oltre è più difficile. Non sono un esperto e non desidero farlo: ma voglio commentare un commento che mi pare, nei suoi meriti e demeriti, rappresentativo di quelli che ho letto sulla stampa italiana.
L’articolo in questione è di un autorevole giornalista e scrittore, Guido Rampoldi, ed è stato pubblicato il 9 marzo dal quotidiano “Domani”– sul quale tra l’altro io stesso scrivo – col titolo Non serve togliere le armi agli ucraini. Sarà l’odio per Putin a farli resistere. L’articolo mi ha lasciato perplesso. Non per il tentativo di collocare questa guerra sullo sfondo di alcuni precedenti, che è utile, ma per la questione trattata, la tesi proposta e alcuni argomenti a suo sostegno.
La questione è se si debba armare Kiev. Vogliamo, chiede Rampoldi, «[n]egare armi ai patrioti ucraini per evitare che si suicidino in uno scontro impari?» D’istinto risponderei di no, ingoiando qualche dubbio, ma la domanda è superflua: i governi occidentali hanno già armato l’Ucraina, intendono continuare, e sono contestati da segmenti minoritari della classe politica e dell’opinione pubblica. Chi argomenta contro ogni aiuto militare agli aggrediti avrà pure torto, ma per ora resta ai margini del dibattito sia in Italia sia nei Paesi occidentali che riesco a seguire: dimostrare che un’opinione pressoché irrilevante è sbagliata è altrettanto poco urgente, quando incombono decisioni difficili e indifferibili.
Chi argomenta contro ogni aiuto militare agli aggrediti avrà pure torto, ma per ora resta ai margini del dibattito. La vera questione, per chi scarti la via pacifista, è quale genere di aiuto militare fornire
La vera questione, per chi scarti la via pacifista, è quale genere di aiuto militare fornire. A rigore, credo che il diritto internazionale consentirebbe a ogni membro della Nato – in quanto destinatari della richiesta di Kiev – di intervenire con proprie forze nel teatro di guerra, esercitando il diritto di autodifesa collettiva sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Questo è un estremo di ciò che si potrebbe fare. Fornire fionde è l’altro.
Pertanto la tesi di Rampoldi – che si debbano armare gli ucraini – non è granché utile se non chiarisce come. E tiene conto solo di alcune delle questioni da considerare. Un argomento al quale Rampoldi assegna grande rilievo nel costruire la sua tesi, per esempio, è il parallelo con la guerra di Bosnia (1991–95). In quel caso, come Rampoldi ricorda, poco dopo l’inizio del conflitto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite «decret[ò] un embargo sulle armi che di fatto colpiva solo gli aggrediti». Si discusse a lungo se toglierlo, per aiutare gli aggrediti. Ma rimase in vigore sino alla pace di Dayton, sebbene non sempre attuato con rigore, e non è assurdo pensare che abbia contribuito a prolungare l’agonia della Bosnia.
Superficialmente l’analogia pare utile. Ma Rampoldi omette di ricordare che coloro che assediavano Sarajevo – il regime serbo-bosniaco di Pale e, dietro di loro, la Serbia di Milosević – non avevano seimila testate nucleari. È in virtù di questo che qualche anno dopo, quando si temette una ripetizione in Kosovo dei massacri avvenuti in Bosnia, la Nato poté bombardare la Serbia per tre mesi. Bombarderemmo ora Mosca per salvare Kiev da un assedio egualmente atroce?
Scartare questo precedente non elimina però la domanda su quale grado di aiuto, tra i due estremi che ho indicato, sia giusto e prudente fornire agli aggrediti. Rampoldi sostiene che «[p]rivarli di missili anti-aereo e anti-carro non li indurrà alla resa, semmai li esporrà a rischi maggiori, innalzando il numero di coloro che saranno massacrati.» Di nuovo, potrei anche essere d’accordo: ma questi missili li abbiamo già forniti, li stiamo fornendo, credo, e non esistono larghi movimenti di dissenso. Non è questa la domanda che fronteggiamo.
La questione all’ordine del giorno è se imporre una no-fly zone su parte o addirittura tutto il territorio dell’Ucraina, come Kiev ha ripetutamente chiesto; e se, in alternativa, fornire invece aerei da combattimenti immediatamente utilizzabili dai piloti ucraini – i caccia MiG-29 dell’aviazione polacca, in particolare – per riequilibrare il rapporto di forza nei cieli. Di questi temi si parla da almeno una settimana. L’articolo è uscito il giorno dopo la dichiarazione di Varsavia della propria disponibilità a donare quegli aerei a Kiev per il tramite degli Stati Uniti, consegnandoli a una loro base sita in Germania, e il giorno stesso nel quale Washington ha rifiutato la proposta, qualificandola come untenable (“insostenibile”, “indifendibile”). Eppure né la no-fly zone né i MiG appaiono nell’articolo di Rampoldi.
Presa alla lettera, la sua logica indurrebbe a concludere che bisogna offrire questi aiuti, e almeno gli aerei. Ma siccome ha scelto di non trattare il tema esplicitamente, Rampoldi non deve confrontarsi con le controindicazioni. Mentre sarebbe stato utile ricordare all’opinione pubblica, scossa dalle immagini che vede, che stabilire una no-fly zone significa essere pronti ad abbattere gli aerei russi che la violassero, o ne testassero la credibilità. Non è ovvio che sia una buona idea (qui alcuni argomenti contro).
Scartata la via pacifista, restano due coppie di doveri morali e interessi politici che possono entrare in tensione tra loro: difendere l’aggredito, anche per stigmatizzare l’aggressione e dissuaderla in futuro; evitare una spirale che potrebbe condurre all’uso dell’arma nucleare ed estendere il conflitto alla Nato
Tutto questo dimostra solo che articoli come questo risultano in fondo scarsamente utili alla riflessione dell’opinione pubblica italiana. Le questioni restano aperte, e non sono in grado di dire altro che questo: scartata la via pacifista, restano due coppie di doveri morali e interessi politici che possono entrare in tensione tra loro, sia nel breve sia nel lungo periodo: difendere l’aggredito, da un lato, anche per stigmatizzare l’aggressione e dissuaderla in futuro, e, dall’altro lato, evitare una spirale che potrebbe condurre all’uso dell’arma nucleare ed estendere il conflitto alla Nato.
I nostri governi paiono prenderlo sul serio, ma si potrebbe obiettare che il rischio di una guerra termonucleare globale non è realistico. Tra gli analisti che mi è capitato di leggere alcuni giudicano Vladimir Putin relativamente imprevedibile, oltre che estremamente aggressivo, altri meno: ma tutti sconsigliano il ricorso alla psichiatria a distanza. Rampoldi – che anche qui riflette bene posizioni diffuse sui media italiani – preferisce chiedersi se «si può convincere Putin il matto? Forse tanto matto non è. Forse l’invasione dell’Ucraina segue un copione pazzesco già portato in scena dall’esercito russo».
Se è matto il rischio c’è, evidentemente. Ma c’è anche se invece egli persegue razionalmente gli interessi – pure «pazzeschi» – del suo regime: perché la scelta di compiere la più eclatante violazione della pace dal 1941 suggerisce una determinazione che potrebbe non fermarsi di fronte al tabù nucleare (inizialmente per uso tattico, certo, ma non possiamo assumere che la spirale si fermi lì). Un articolo sulle simulazioni condotte da Washington dopo il conflitto russo-ucraino del 2014, per esempio, vede solo due esiti probabili della situazione presente: la spirale ascendente, che potrebbe condurre alla guerra nucleare, o una dura pace imposta all’aggredito dopo la resa o la sconfitta.
Se questo è vero, mi pare che si debba cercare una linea che aiuti Kiev, e freni Mosca, senza rischiare la terza guerra mondiale (un imperativo che rileva anche per le sanzioni). Quindi la migliore stampa dovrebbe preparare l’opinione pubblica ai difficili bilanciamenti tra quelle due coppie di doveri morali e interessi politici, e spiegarle il senso – «costruisci un ponte d’oro sul quale il nemico possa ritirarsi», consiglia Sun Tsu – di un’opzione che può altrimenti apparire disprezzabile, ossia aprire all’aggressore una via d’uscita onorevole. Sinora, invece, la stampa italiana ha dedicato più spazio alle emozioni che alla riflessione.
«Mica facile lavarsene le mani», conclude Rampoldi, riferendosi «ai bambini che s’incamminano verso l’esilio». Ha perfettamente ragione. Ma aggiungerei, in questa chiave, che sulle scelte che faremo devono pesare anche le responsabilità storiche dell’Occidente: per aver creato almeno due precedenti di uso illegale della forza, in Kosovo e in Iraq; per come ha gestito la fine della Guerra fredda, e ha poi contribuito ad allontanare la Russia da sé; e anche per come ha agito quale consigliere dei dirigenti russi durante la doppia transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato e dal dominio del partito unico alla democrazia. Non sono responsabilità lievi. Katarina Pistor, per esempio, ricorda che se una delle cause di questa guerra è la natura autocratica del regime di Mosca, una delle ragioni che spiegano quella deriva è che all’inizio della transizione i governi occidentali incoraggiarono Mosca a dare maggiore priorità alla liberalizzazione dei prezzi e dei mercati che alla costruzione delle basi istituzionali della democrazia.
L’Ucraina, pertanto, è vittima anche di dinamiche che l’Occidente ha contribuito a innescare o alimentare (dopo essere stata spogliata da oligarchi coi quali i governi occidentali erano spesso lieti di trattare senza fare troppe domande). Anche questo deve incidere sulle difficili decisioni che in questi giorni dobbiamo prendere sugli aiuti a una nazione che resiste efficacemente, e per questo rischia la devastazione oltre la sconfitta.
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