Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
La storia non si ripete, a volte prova a imitarsi. Confrontare situazioni storiche diverse necessariamente semplifica, ma a volte può aiutare a comprendere qualcosa. Quindi, seguitiamo a confrontare. Gli osservatori più aulici e più realisti hanno citato Tucidide, giusto per ricordare che le grandi potenze sono inesorabilmente portate a sottomettere quelle minori. È facile il confrontare l’aggressione all’Ucraina con altre recenti: in Afghanistan e in Iraq. Molto animato è pure il parallelismo tra la resistenza ucraina e quella antifascista. Ma altri raffronti sono possibili, e forse anche qualcosa di più. Poiché quella in corso non solo non è un’operazione speciale, ma una guerra in senso proprio, ma è anche un episodio ascrivibile a un dopoguerra ancora irrisolto: al dopoguerra di quella lunghissima guerra che si è combattuta senza quartiere, pur se con pochi morti e senza distruzioni, tra Est e Ovest, denominata Guerra fredda. Conclusa dalla caduta del Muro di Berlino.
Se ne può vedere l’esito in molti modi. Come la vittoria dell’Occidente democratico e capitalistico sull’Oriente autoritario e socialista. Si può vederla come il collasso di uno dei due contendenti. Comunque sia, vi sono stati dei vincitori, che hanno gridato vittoria a gran voce, e degli sconfitti, che hanno mestamente pagato costi molto alti: il più alto è il parziale smembramento territoriale della ex Urss. Ma forse l’aspetto saliente della vicenda è che, pur essendo la guerra finita, tra gli uni e gli altri nessuna riconciliazione è avvenuta. In Russia si è dismessa l’economia pianificata, le grandi imprese statali sono state privatizzate, le disuguaglianze sono esplose, mentre una ristretta minoranza più fortunata è sciamata verso Occidente, ad acquistare abitazioni di prestigio e natanti da diporto (mentre altri, su un gradino più in basso, sono arrivati come turisti).
In Occidente c’è chi ha storto il naso al cospetto delle dubbie contese elettorali che hanno incoronato, e confermato, i governanti della neonata Federazione Russa e, poi, della progressiva involuzione autoritaria del regime. Ma neanche la sanguinosa guerra in Cecenia, l’occupazione della Crimea e altri episodi violenti hanno posto fine agli imponenti acquisti occidentali di petrolio e di gas. Per contro, nemmeno un rito che aiutasse a cancellare dalla memoria del dominio sovietico nei popoli che vi erano stati sottoposti e che ricucisse stabilmente l’antico legame, anche culturale, tra la Russia e il resto d’Europa.
Vien fatto così d’instaurare un confronto con altri due dopoguerra. Il primo è quello che seguì la conclusione del primo conflitto mondiale. Allora fu stipulato a Versailles un trattato di pace, che, come sappiamo, non prevedeva alcuna riconciliazione. L’aggressione tedesca del ’14 aveva lasciato ferite difficili da cicatrizzare. I vincitori vollero vendetta e la Germania fu umiliata. Favorendo lo sviluppo di un micidiale sentimento di rivalsa – una vendetta di ritorno – in alcuni ambienti, tale da propiziare l’ascesa di Hitler al potere. Sarebbe improprio attribuire il nazismo alla pace sbagliata di Versailles. Fu un fenomeno specifico della società tedesca. Manifestatosi a partire da ingredienti che le erano propri, quali il militarismo e il razzismo antisemita. Ciò non toglie che l’umiliazione di Versailles abbia fatto da catalizzatore, ponendo le premesse di un’altra guerra, che è stata la prosecuzione della prima. Per fortuna, le cose dopo la Seconda guerra mondiale sono andate diversamente. Per iniziativa propria, o su sollecitazione degli americani, non importa, la vendetta non c’è stata. La Germania, la Francia e il resto dell’Europa occidentale hanno trovato modo di riconciliarsi.
Il trattamento riservato al grande sconfitto della Guerra fredda somiglia infinitamente di più a quello subito dalla Germania nel 1919 anziché a quello del secondo dopoguerra. La Russia ha perso il suo status di grande potenza, le capacità tecnologiche dell’Urss sembrano svanite nel nulla; è un Paese impoverito, che vive delle risorse del suo sottosuolo, lacerato da gravissime disuguaglianze sociali. L’Occidente l’ha addirittura circondato con un’alleanza militare, che, per quanto possa essere difensiva, dal punto di vista russo non può apparire amichevole. Tanti autorevoli osservatori occidentali avevano sconsigliato isolamento e accerchiamento, che ha incluso l’occidentalizzazione a tappe forzate tramite l’adesione alla Nato e all’Ue, anche di regioni che da sempre avevano fatto parte dell’Impero russo, come l’Ucraina. Sarebbe stato meglio lasciarli nella condizione di Stati vassalli della Russia? Senz’altro no, ma in assenza di una riappacificazione e di una rassicurazione generale, era inevitabile che l’occidentalizzazione sarebbe apparsa una mossa ostile. Perché allora non si sono seguiti gli inviti alla prudenza? Sono più che comprensibili le motivazioni delle antiche democrazie popolari: senza riconciliazione, aver paura della Russia era ovvio. Ma le ragioni dell’isolamento da parte degli occidentali sono più oscure. Per insipienza e scarsa lungimiranza? Perché aiutare la Russia a sollevarsi sarebbe stato costosissimo? Perché era economicamente più conveniente l’isolamento? Per incomprensione, ossia per un pregiudizio “orientalista” alla Said? Perché per gli Stati Uniti preferivano l’unilateralismo anche a una mera parvenza di bilateralismo? Possiamo solo avanzare qualche congettura.
Ad ogni passo del processo di occidentalizzazione Putin e chi lo circonda sono diventati sempre più ostili. E come già era avvenuto con Hitler hanno reagito all’umiliazione col riarmo militare (e culturale). Il nazionalismo russo è diverso dal nazismo: anzitutto non sembra penetrato altrettanto in profondità, anche perché i tempi cambiano, ma ha pur sempre trovato ampio seguito. In seconda battuta, come Hitler mise alla prova in Spagna le ritrovate capacità militari del suo Paese, così ha fatto Putin in Siria, peraltro con l’avallo dell’Occidente. Ha testato le reazioni occidentali anche in Georgia e ha alla fine ha deciso di prendersela con l’Ucraina, dove la penetrazione occidentale stava procedendo rapidamente. Ha l’obiettivo di spingersi oltre? Difficile dirlo, il possesso delle armi nucleari incide sull’andamento del gioco da entrambe le parti. Molto in astratto, tuttavia, un ulteriore tentativo di espansione sarebbe coerente con la sua prospettiva. È impossibile che la guerra in Ucraina, anche a concludersi con una piena vittoria, migliori le condizioni di vita della popolazione russa. Alla quale andrà allora somministrata una nuova dose di nazionalismo.
Putin intende spingersi oltre? Difficile dirlo. Molto in astratto, tuttavia, un ulteriore tentativo di espansione sarebbe coerente con la sua prospettiva
È possibile ancora confrontare l’invasione dell’Ucraina con quella della Polonia il 1° settembre del 1939. Due giorni dopo, le potenze che avevano umiliato la Germania entrarono in guerra anche loro. Non si limitarono però a spedire armamenti in Polonia. Che è la scelta compiuta invece dai Paesi che hanno umiliato la Russia. Pertanto, gli ucraini si trovano adesso a combattere una guerra che ha le sue radici nell’umiliazione della Russia, di cui forse sono i meno responsabili. Spedire armi in queste condizioni è però giustificato da almeno tre ragioni: la prima è la paura delle atomiche russe, la seconda è che gli ucraini sono vittime di una grave violazione del diritto internazionale, la terza è che questa guerra, dopotutto, è anche una guerra che l’occidente combatte per procura: l’invio di armi sgrava la coscienza. La retorica sull’eroica resistenza ucraina ci sta, specie se la si sottrae al suo confezionamento mediatico, ma è intrisa di sensi di colpa.
Come sempre la guerra porta con sé lo strazio dei morti e dei feriti da ambo le parti, dei profughi, delle distruzioni. Insieme vi sono l’avvelenamento dei rapporti internazionali, i danni economici provocati dalle sanzioni, anche a chi li ha comminati, ma pure il disorientamento delle pubbliche opinioni occidentali e manipolazioni mediatiche parecchio divisive. Per quanto potremo sopportare tutto ciò? È il caso di alimentare ancora questa coda violenta della Guerra fredda, col rischio che capiti l’incidente fatale? Non sarà piuttosto ora di deporre le armi? Immaginando non solo pace per l’Ucraina, ma quella riconciliazione continentale che si sarebbe dovuta stipulare trent’anni or sono. L’Europa, che sta combattendo per interposta persona è soprattutto l’attore più interessato a chiudere la partita in via definitiva. A lei toccherebbe perciò a proporre un nuovo accordo di convivenza, paritaria, scevra di paure e umiliazioni per chicchessia. La condizione degli Stati Uniti è notoriamente molto diversa: già solo per la loro collocazione geografica.
Ancora una volta si tratta di voltare, con colpevole ritardo, la pagina della Guerra fredda, per accordarsi su un futuro di pace e sicurezza
Se l’Europa vuole davvero la pace, dovrebbe trattenersi dal descrivere Putin come un mostro criminale, anche perché nel frattempo i suoi leader si trovano costretti a intrattenersi a lungo al telefono un paio di volte a settimana con il Cremlino. Così come sarebbe ora di finirla col racconto dei pretesi malanni del capo russo (e magari coi velleitari progetti di tirannicidio). Bisogna partire dai fatti. Putin non è la Russia e si approssima un futuro senza di lui. È, del pari, impensabile che la cronicizzazione del conflitto, o una nuova umiliazione della Russia, favoriscano la comparsa di figure più malleabili di lui e magari la democratizzazione del regime. È ora piuttosto di trattare con lui e con il suo Paese, rompendo gli schemi del realismo politico, che trovano nella sua disfatta l’unica soluzione. Serve un altro realismo, quello della pacificazione. Potrebbe servire da ispirazione l’esperienza di Nelson Mandela: si fosse fatta la contabilità dei torti commessi dagli africaaner a spese degli africani l’unica possibilità sarebbe stata un tragico bagno di sangue. Tralasciando simili conti, si tratta anche stavolta di voltare, con colpevole ritardo, la pagina della Guerra fredda, per accordarsi su un futuro di pace e sicurezza. Purtroppo, un leader della tempra profetica di Mandela non si vede. Ma se i sentimenti di pace che albergano nella pubblica opinione venissero alfine alla luce qualche speranza ci sarebbe.
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