Milano, metropoli aperta. Nel cuore dell’Europa produttiva, tra industria high tech e servizi digitali. E lungo i grandi assi di comunicazione Nord-Sud e Ovest-Est. Milano, dunque, continentale e mediterranea, se è necessario individuarne ruolo e funzioni, con occhio alla storia e consapevolezza del futuro. Per Milano, e naturalmente per l’intero sistema Paese. Oltre la retorica della «locomotiva», pur affascinante, e semmai nella presa d’atto d’una relazione positiva tra la crescita di una «grande Milano» e le possibilità, per tutta l’Italia, di giocare un ruolo non marginale nella riflessione critica ed autocritica della Ue.
Quale Milano, dunque? Viesti ne sottolinea giustamente vitalità e limiti. Fuor di polemica, credo valga la pena insistere sulle attitudini milanesi a fare valere innovazione, manifattura digitale, scambi internazionali, start up, servizi per le imprese, ricerca, formazione di alto livello (la città universitaria forte di 180 mila studenti che vengono non solo da tante regioni d’Italia, ma anche un po’ da tutto il mondo, qui più che in altre città). E legalità.
Ecco un primo punto chiave: la legalità, nella oramai radicata consapevolezza (anche tra gli imprenditori) che non c’è sviluppo né per la ricca Lombardia né per il resto del Paese se non si blocca drasticamente la presenza delle organizzazioni mafiose nei circuiti dell’economia, della pubblica amministrazione e della politica (come rivela l’allarme sull’ombra del capo di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro sugli appalti d’una società della Fiera, un luogo con forte valenza simbolica e finanziaria; o la crescente influenza della ‘ndrangheta, dall’Ortomercato milanese a centinaia di altri affari a Milano e in Lombardia). Una presenza mafiosa che si fonda non solo su violenza e alterazioni di mercato, ma anche su diffusi livelli di corruzione. Fenomeno grave. Sulle cui dimensioni proprio Milano deve saper accentuare attenzione e capacità d’intervento. Prevenzione e repressione. E una più acuta coscienza civile. La legalità è una scelta morale, ma anche uno strumento cardine di competitività, di buona crescita economica.
Viesti, nelle sue riflessioni critiche, consiglia a Milano l’autoironia e l’abbandono della convinzione d’essere paradigma assoluto per il resto d’Italia. L’ironia non ha mai fatto male a nessuno, naturalmente. E proprio la cultura milanese, dall’alto di Gadda al pop di Gaber, ne offre ampie riprove, con scarse inclinazioni alla retorica e robuste dosi di consapevole pragmatismo.
Utile, dunque, provare a ragionare sugli assi dello sviluppo italiano (lento, stentato, faticoso, intralciato da politiche scadenti sul piano delle riforme e da ostacoli costruiti da settori di pubblica amministrazione profondamente conservatori). E sulla necessità di ridisegnare le mappe dello sviluppo economico, visto che quelle che sino a ieri davamo per consolidate sono state sconvolte dall’emergere prepotente e inquietante di neo-nazionalismi e neo-protezionismi.
Il primo asse di sviluppo è un rilancio della manifattura high tech e medium tech, adattando al sistema delle piccole e medie imprese i paradigmi digitali di «Industry 4.0». La «grande Milano» ne è al centro (qui la manifattura vale circa il 29% del Pil, ben oltre il 22% della Germania e il 17% della media italiana: un grande motore industriale meccanico e chimico, tessile e dell’arredamento, farmaceutico e alimentare, innervato di servizi innovativi). Si gioca su uno spazio geo-economico che va da Torino verso Verona, si allunga verso l’Emilia e la dinamica dorsale adriatica, ha bisogno di considerare centrale il Mediterraneo da Genova ai porti di Venezia e Trieste. Non un Nord contro un Sud, ma un’area centrale in Europa che, forte di manifattura e servizi (logistica, finanza, ricerca, trasferimenti tecnologici, start up digitali, formazione non solo universitaria ma soprattutto segnata da attitudini «long life learning»), può fare da riferimento e da stimolo per altre aree italiane. Non è «il primato di Milano», ma la sottolineatura del peso di una metropoli che ancora una volta ha ruolo cardine per lo sviluppo generale.
È la storia di Milano, d’altronde, a confermarlo. Città senza mura (le porte erano caselli del dazio, luoghi degli scambi economici). E accogliente: ecco il secondo asse di sviluppo. Città dinamica. Non una «company town» segnata da una cultura industriale egemone, come nella Torino della Fiat, ma una metropoli di migliaia di imprese grandi (Pirelli, Montecatini, Edison, Falck) e piccole, con un robusto tessuto artigiano e una «cultura d’impresa politecnica» originale. Una città inclusiva e mai xenofoba (negli anni Cinquanta e Sessanta le sue industrie hanno assorbito centinaia di migliaia di immigrati dal Sud e le fabbriche sono state luoghi del lavoro e della cittadinanza, «scuole» civili di diritti e doveri). Oggi, i paradigmi di creatività, intraprendenza e inclusività sociale si ripetono, in modo nuovo. Una cultura «politecnica» con cui il resto d’Italia e buona parte dell’Europa possono utilmente confrontarsi.
Il terzo asse può essere racchiuso nella formula, oramai diffusa nel discorso pubblico, di Milano «metropoli Steam», un acronimo che parla di science, technology, environment ma anche education, arts (tutto il sofisticato complesso dei saperi umanistici e della creatività) e manifacturing: un insieme di conoscenze, competenze e funzioni di sviluppo che coinvolgono istituzioni pubbliche e private, imprese, centri di ricerca, un «capitale sociale» che s’arricchisce di «capitale scientifico» e può avere una grande forza competitiva, nel contesto di un’Europa che ridisegna ruoli, poteri, funzioni.
Sfida difficile, naturalmente, e in un momento critico. Con responsabilità del governo nazionale (investire su Milano, come promesso). Dell’amministrazione comunale ben guidata da Beppe Sala. E dei suoi attori sociali, a cominciare dagli imprenditori che, qui più che altrove, conoscono le sfide di mercato, internazionali, severe e selettive.
Anche il progetto di Human Technopole, sulle aree ex Expo, sta in questo disegno. Da giocare sul piano dei tempi (tutto pronto nell’arco breve di un quinquennio), della qualità delle realizzazioni (l’Anac, l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone ha promesso il suo impegno per vigilare sulla correttezza e la legalità degli appalti, come ha già fatto per l’Expo). Delle prospettive economiche. È una sfida possibile, in una metropoli che ha robuste carte di attrattività per investimenti produttivi e finanziari, ma anche per la collocazione di grandi agenzie Ue, dopo la crisi della Brexit. Milano, «the place to be», come dicevano i media internazionali durante la stagione dell’Expo. L’attrattività, pur critica, resta. E può continuare a crescere.
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