Il titolo di una fortunatissima trasmissione televisiva ormai di tanti anni fa – «Milano, Italia» – dovrebbe tornare all’ordine del giorno, poiché i rapporti fra la capitale del Nord e il resto del Paese meritano anche oggi più che mai qualche riflessione. È forte l’impressione che Milano, per meriti propri e demeriti altrui, funzioni molto meglio delle altre città italiane. I suoi grandi servizi pubblici sono sempre più efficienti; vi hanno luogo nuove interessanti sperimentazioni sia nel pubblico che nel privato, dal car sharing al commercio e alla distribuzione via app. Milano ha certamente tenuto meglio di altre città – anche di comparabile livello di reddito – nella crisi. Conserva e nutre eccellenze di livello internazionale nella cultura (si pensi ad esempio alla Fondazione Feltrinelli, di cui è appena stata inaugurata una nuova, modernissima sede), nella scienza, nell’economia. Riesce ancora ad attirare, ad assorbire e a mettere a valore risorse, specie umane, dall’esterno; conserva molti tratti di quel «melting pot» che è stata almeno per tutto il Novecento.

Tutto questo produce fra i suoi cittadini un forte orgoglio, tipicamente meneghino. Di più, consente di mantenere – assai più che altrove – una certa fiducia nel futuro. Di più ancora, produce voglia di investire: su sé stessi, sulle proprie imprese e attività, sui beni comuni. Orgoglio, fiducia e voglia di investire che mancano drammaticamente, pur in proporzioni variabili, in tutte le altre città italiane. E che sono ingredienti decisivi per la ripresa del Paese.

Certo, l’orgoglio andrebbe espresso con un po’ più di autoironia, ingrediente che, sia detto con simpatia, ha sempre scarseggiato un po’ a quelle latitudini. Andrebbe temperato con una più forte percezione, e una più attenta discussione, dei problemi che certamente non mancano: dalle difficoltà d’integrazione di via Padova, alla diffusione della corruzione, sino a un confronto più realistico con le realtà europee comparabili, rispetto alle quali Milano, come tutto il Nord Ovest, mostra ancora ritardi rilevanti e in parte crescenti. Soprattutto Milano dovrebbe evitare di applicare al resto del Paese il mantra che Angela Merkel continua a rivolgere da anni all’Italia: basta fare come noi; se fate come noi, risolvete i vostri problemi. Dimenticando, a Berlino come a Milano, che lo sviluppo in tutte le sue dimensioni non è solo frutto di volontà e scelte, ma risente di condizioni strutturali, di possibilità, di punti di partenza che sono drammaticamente diversi. Tutto ciò detto, comunque, l’orgoglio milanese è da apprezzare e guardare con grande attenzione da tante città italiane, che, all’opposto, indulgono quasi esclusivamente sulle proprie miserie e difficoltà; le usano troppo spesso come scuse per mascherare la scarsa capacità di fare; ragionano assai poco sulle risorse, talvolta assai grandi, di cui dispongono e che possono mettere a valore.

Questo ci porta però a un punto cruciale: Milano è convinta di essere la locomotiva del Paese:  per il «fate come noi»; ma anche perché convinta che se riparte la città «si tira dietro tutto il Paese». Certamente non è così. In primo luogo perché Milano è largamente autosufficiente: economicamente il suo sviluppo non dà alcuna spinta al resto d’Italia; servirebbero processi di diffusione tecnologica o di investimento verso le altre regioni che non paiono particolarmente forti. Ma soprattutto perché lo sviluppo recente di Milano è avvenuto spesso in assenza e talvolta a danno del resto del Paese, in termini di attrazione e allocazione di intelligenze e risorse.

Il punto non è stato Expo; anche se l’Esposizione è stata un po’ troppo interpretata come una gloria cittadina e non come un evento nazionale, voluto (e in parte pagato) dall’intero Paese. E che ha lasciato un’eredità avvelenata in termini di terreni e di risorse nazionali (per la verità in gran parte del Fondo per lo sviluppo e la coesione, che per legge sarebbe finalizzato per l’80% al Mezzogiorno) destinate a risolverla.

È il caso del Salone del Libro, pervicacemente conteso, grazie a una maggiore forza economica a una Torino che lo gestisce (per la verità con qualche problema) da anni; e che su libro e cultura aveva basato un’uscita dalla monocultura automobilistica di grande successo almeno sino a qualche anno fa. È il caso dello Human Technopole (che ci riporta ai terreni dell’Expo): un progetto oscuro, affidato particolaristicamente a un istituto che si occupa prevalentemente d’altro, a patto che cresca su quei terreni; con una enorme dotazione finanziaria destinata tutta a Milano, assai superiore a quella della ricerca di tutte le università italiane, di cui si potrà disporre discrezionalmente. Contro il quale ha tuonato, sinora inascoltata, la grande scienziata (e senatrice a vita) milanese Elena Cattaneo. È il caso, ancora, del grande progetto «meritocratico», nato e cresciuto a Milano, fra le mura dei suoi atenei e dell’Assolombarda e sulle pagine del «Corriere», che sta pesantemente riconfigurando – lungo linee discutibilissime – l’università italiana a forte vantaggio proprio dell’area milanese. C’è, tra l’altro, un corto circuito fra gli ultimi due esempi, come se merito e valutazione valessero per tutti ma non per chi scrive le regole.

Il punto di fondo è che la forza dell’Italia è sempre stata il suo essere plurale e policentrica. Come la Germania. A differenza della Francia (che pure fa enormi sforzi per impedire che Parigi soffochi il resto del paese) e dell’Inghilterra (che invece dell’enorme divario e crescente  fra Londra e il resto del Paese si bea, salvo risvegliarsi con Brexit). L’Italia è cresciuta con le sue forze diffuse: anzi il suo grande problema storico è che questa diffusione è ancora incompleta a Sud. Non può che tornare a crescere sommando e mettendo a sistema più città, più regioni. Questo implica politiche di allocazione di risorse e di investimento intelligenti mirate a far ripartire tutte le città e le regioni del paese. Talvolta, spesso, negli ultimi anni molti a Milano hanno invece ritenuto opportuno, in tempi di risorse scarse, indirizzarle «meritocraticamente» (senza distinguere fra punti di partenza e comportamenti virtuosi) e concentrarle sull’eccellenza (cioè su di sé).

Nel suo secolo e mezzo di vita l’Italia ha ricevuto moltissimo da Milano, dalla sua etica del lavoro, dalla sua capacità imprenditoriale, dalla sua vitalità innovativa, dai suoi esempi. E molto le ha dato, dalle commesse di guerra ai salvataggi dell’Iri, da un mercato interno protetto nel dopoguerra a molte delle sue migliori intelligenze. È stato, credo, un processo complessivamente virtuoso. Che ci racconta che la forza di Milano fa bene all’Italia; ma anche che Milano è forte solo se lo è anche l’intero paese. Altrimenti, la città  rischia di diventare altro dall’Italia: una piccola economia indipendente, satellite della Germania. Come un grosso cantone svizzero; ricco, ma che conta molto poco. Forse vale la pena di parlarne. A Milano e in Italia.