La Chiesa cattolica continua a farsi male da sola. Le mezze ammissioni, le richieste parziali di scuse (perché una lettera rivolta solo alla Chiesa irlandese e non a tutte le Chiese del mondo, ad esempio?), i faticosi distinguo e la puntigliosa ricerca di appigli statistici per dimostrare che, tutto sommato, la pedofilia non è più diffusa nella Chiesa cattolica e tra i religiosi di quanto non sia altrove. Tutto questo getta nello sconforto sia i credenti sia coloro che hanno un profondo rispetto per i molti religiosi che generosamente si dedicano al bene comune. Non solo: scoperchia anche il pentolone, sempre ribollente, dei peggiori luoghi comuni e delle accuse tanto infamanti quanto infondate che serpeggiano sia nelle parti più retrive della Chiesa sia tra i suoi più o meno interessati sostenitori. Così si (ri)sente parlare di complotti giudaico-massonici e si identifica l’omosessualità con la pedofilia. All’evidenza di comportamenti gravi, sia sul piano penale sia su quello etico e spirituale, si reagisce con l’arroccamento e il contrattacco violento. Fino al punto di presentare la Chiesa come vittima di oscure manovre. Se queste congetture provenissero soltanto da qualche fogliaccio marginale, o da un Calderoli qualunque che fino all’altro ieri maneggiava ampolle del dio Po e si sposava con riti celtici o, con il suo leader, definiva disinvoltamente pedofili, e quindi inaffidabili, tutti i belgi dopo che vennero alla luce gravi fatti di pedofilia omicida, potremmo pensare che si tratti solo di folclore (per quanto sgradevole). Ma quando questi accostamenti impropri e calunniosi vengono da predicatori ufficiali, un ex vescovo ora in pensione che ha avuto la responsabilità di una diocesi per anni e persino dal segretario di Stato della Santa Sede Tarcisio Bertone, non possiamo più pensare che si tratti di schegge impazzite. Questi comportamenti invece non solo testimoniano quanto continuino ad essere presenti nella Chiesa modelli culturali e stereotipi che tanto danni hanno fatto nel passato. Segnalano anche quanto poco la Chiesa nel suo insieme abbia compreso ciò che è accaduto e quanto poco se ne sia presa davvero e sino in fondo la responsabilità. Non solo: simili atteggiamenti difensivi indeboliscono anche l’azione intrapresa dal papa, rafforzando l’impressione di chi la giudica troppo timida o troppo parziale. In realtà, al di là delle sue eventuali responsabilità ricoperte quando ancora non era papa, Ratzinger appare singolarmente solo e vulnerabile dall’interno della sua stessa Chiesa e in particolare della curia romana.
Ciò che è mancato e manca, infatti, è una piena assunzione di responsabilità pubblica da parte della Chiesa cattolica, al di là degli ovvi distinguo, della conta delle teste, dei buoni e dei cattivi. Una responsabilità pubblica per non aver saputo vigilare sui propri rappresentanti incorrendo così nel più grave dei peccati segnalati da Cristo: “Chi scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina d’asino al collo e fosse gettato nel profondo del mare” (Mt. 18,6). Per avere nascosto a lungo la verità, facendo prevalere la difesa dell’istituzione e dei “propri” sulla verità e sul bene. Inoltre, e di conseguenza, è mancato un atto di penitenza. Proprio da parte di quella Chiesa che ha fatto della confessione e della penitenza un sacramento, ma che ora non è capace di amministrarla a se stessa e di farne l’unica parola pubblica in un frangente così drammatico. Quella parola che, se pronunciata, avrebbe significato un riconoscimento di fallibilità e di vulnerabilità. Una parola che i fedeli, ma anche i non fedeli, avrebbero potuto riconoscere per ricostruire, o costruire ex novo, un rapporto di fiducia.
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