«Chi viaggia in aereo rischia di precipitare»: questa frase è fattualmente vera, e tuttavia parte di ciò che lascia intendere è decisamente falso. Nello specifico, il fatto che l’aereo sia un mezzo di trasporto particolarmente rischioso è falso, anzi, molto falso: da decenni i dati statistici confermano che motociclisti, pedoni, automobilisti, ciclisti, naviganti, e persino passeggeri di treni e autobus sono esposti a rischi, letali e non, ben maggiori di quelli affrontati da chiunque salga su un volo di linea.
I molti modi in cui possiamo mentire dicendo la verità sono da tempo oggetto di studio in psicologia (C. Castelfranchi e I. Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi. Per una scienza dell’inganno, Carocci, 2002) e in pragmatica (E. Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione, Il Mulino, 2019), dunque il meccanismo per cui un’affermazione vera può indurre credenze false è ben compreso: basta tacere informazioni necessarie a contestualizzare il dato, vero ma parziale, fornito dal messaggio esplicito, impedendone così la corretta decodifica. Nel caso in questione, ciò che viene (colpevolmente) taciuto è non solo la natura infima in senso assoluto del rischio che si menziona, ma anche il confronto con la rischiosità di attività alternative: non si spiega, per esempio, che il momento più pericoloso di un viaggio aereo non è né il decollo, né l’atterraggio, e ancor meno la traversata in quota, bensì l’istante in cui mettiamo piede fuori dall’aeroporto, trovandoci di nuovo esposti alla giungla della strada.
Purtroppo, chi ancora non sembra avere chiari i potenziali fraintendimenti di una verità mal comunicata sono i responsabili della comunicazione vaccinale in Europa. Nel recente contributo di Maurizia Mezza e Stuart Blume, La trasparenza dei dati contro la paura dei vaccini, si evidenzia con forza l’importanza della trasparenza nel promuovere fiducia verso i vaccini, ammonendo a non rifugiarsi dietro al paravento della riservatezza scientifica o del segreto industriale per reagire ai recenti fallimenti della comunicazione vaccinale sulla pandemia di Covid-19, in Europa e non solo. Sono d’accordo: come scrivono gli autori, «la segretezza promuove la sfiducia, non la fiducia». Tuttavia, anche questa è una mezza verità: vera cioè nei contenuti espliciti, ma manchevole di importanti precisazioni di carattere contestuale.
Proprio la recente débâcle comunicativa e politica generatasi intorno al vaccino Astrazeneca (oggi ribattezzato Vaxzevria, senza che questo ne abbia migliorato la reputazione) dimostra come garantire la trasparenza dei dati sia solo condizione necessaria, ma non sufficiente, per un’efficace comunicazione vaccinale. La comunicazione delle istituzioni sul caso, a cominciare dalle autorità di farmacovigilanza (l’Ema in Europa, l’Aifa in Italia), passando per i decisori politici, arrivando infine alle testate giornalistiche, è stata costellata di affermazioni vere che sembravano studiate a tavolino per generare interpretazioni false.
Ne è ottimo esempio il mantra dei «benefici superiori ai rischi», in cui tutti, dall’Ema in giù, si sono rifugiati come se fosse un porto sicuro nella tempesta che minacciava di travolgere (e ha poi travolto) l’adozione di Astrazeneca in Europa. Peccato che tale formula, assolutamente vera nei contenuti espliciti, evochi nei più l’idea che i benefici siano a malapena sufficienti a compensare i rischi e che si tratti dunque di un prodotto comunque pericoloso, di gran lunga peggiore degli altri vaccini in circolazione.
Un fraintendimento tanto clamoroso quanto prevedibile, perché figlio di tutto ciò che resta taciuto in quella colpevole mezza verità: il fatto che i benefici siano enormemente superiori ai rischi, al punto da non essere neppure comparabili; il fatto che non vi sia nessuna indicazione di una maggiore pericolosità di Astrazeneca rispetto agli altri vaccini (quando è partita la caccia alle streghe su Astrazeneca, il numero di complicazioni gravi registrate per Pfizer nel Regno Unito era del tutto analogo a quelle rilevate per Astrazeneca – e infatti i sudditi britannici a tutt’oggi osservano perplessi le convulsioni europee sul caso, continuando a usare entrambi i vaccini); soprattutto, il fatto che in questo momento prendere un qualunque vaccino anti-Covid, incluso Astrazeneca alias Vaxzevria, sia un gesto che riduce drasticamente i rischi a cui si è esposti, anziché aumentarli – esattamente come prendere un aereo riduce i rischi connessi a uno spostamento, rispetto alla scelta di effettuare lo stesso viaggio con un altro mezzo. La litania dei «benefici superiori ai rischi» non solo fallisce nel rendere evidenti questi fatti, ma induce attivamente a credere il contrario.
Si tratta di un sintomo di imperizia nel comunicare contenuti complessi, di cui soffre chi sposa acriticamente la fede nella trasparenza, dimenticandosi che essa richiede di accertare la corretta comprensione di quanto dettoPurtroppo non si tratta di un passo falso isolato, quanto di un sintomo di generale imperizia nel comunicare contenuti scientifici complessi, delicati e rilevanti. Di tale imperizia ha sicuramente sofferto la comunicazione recente sui vaccini in Europa, ma tende a soffrirne anche chi sposa troppo acriticamente la fede nella trasparenza dei dati come rimedio a ogni male, dimenticandosi che la vera trasparenza richiede di accertare la corretta comprensione di quanto viene detto.
Quando ciò che si intende comunicare ha a che fare con l’incertezza, come spesso avviene in questioni scientifiche, tale comprensione non può essere data per scontata; anzi, prudenza vorrebbe che si parta dall’assunto che i fraintendimenti saranno all’ordine del giorno, giacché tanto le teorie della decisione quanto la psicologia della comunicazione ce ne hanno svelati parecchi (P. Legrenzi, A tu per tu con le nostre paure. Convivere con la vulnerabilità, Il Mulino, 2019), anche relativamente alla gestione di emergenze pandemiche.
Un altro feticcio delle recenti comunicazioni su Astrazeneca rivela la portata di questo equivoco: l’espressione «legame causale non dimostrato». Per uno scienziato, questa formula ha un significato ben preciso: sancisce come, a dispetto di sistematici tentativi di provare un nesso causale, non sia emersa alcuna prova di tale legame, che dunque al momento è considerato improbabile (oltre che indimostrato), naturalmente con la possibilità di ricredersi, qualora nuovi fatti venissero alla luce. Per chi invece scienziato non è, la frase ha un significato ugualmente chiaro, ma ben diverso: indica la concreta possibilità di un nesso causale, che per il momento non è stato ancora dimostrato, ma che è lecito aspettarsi venga confermato da successive evidenze. Solo chi si attiene a un ideale sterilmente formale di trasparenza e verità potrà sperare di tranquillizzare la popolazione annunciando che fra vaccini e trombosi cerebrali «il legame causale non è stato dimostrato». Al contrario, si tratta dell’ennesima verità usata per mentire: si fa un’affermazione solo superficialmente tranquillizzante, la quale in realtà produrrà prevedibilissime scene di panico.
A scanso di equivoci, esplicito un punto che presumo già chiaro: nessuno suggerisce di tacere, omettere o distorcere in qualsivoglia modo i dati in nostro possesso sui vaccini e sulle loro conseguenze. Tutto l’opposto: si ribadisce che la verità va detta in modo completo e chiaro, tale cioè da essere correttamente intesa da coloro ai quali ci stiamo rivolgendo. Questo è precisamente quello che non è avvenuto nella comunicazione istituzionale sul caso Astrazeneca: a dispetto di grandi proclami su trasparenza e scientificità, i messaggi sono stati sistematicamente fuorvianti. Si è quindi concretizzato un tragico paradosso: su Astrazeneca, le istituzioni europee hanno detto la verità in modo così maldestro da riempire di false credenze e dubbi infondati le teste dei cittadini europei.
Inevitabilmente, il problema non è solo di costruzione dei messaggi, ma anche di conseguenti scelte politiche. La comunicazione non è fatta esclusivamente di parole e immagini, ma anche di azioni: istituzioni e individui comunicano moltissimo attraverso i propri comportamenti. Qui la titubanza dei decisori europei salta agli occhi nel confronto con un’analoga vicenda avvenuta negli Stati Uniti. Mentre nell’Ue si consumava l’affaire Astrazeneca, anche le istituzioni di farmacovigilanza statunitensi (Cdc e Fda) hanno suggerito di interrompere le somministrazioni del vaccino Janssen, noto anche come Johnson & Johnson, per indagare reazioni avverse del tutto simili, per natura e frequenza, a quelle riscontrate con Astrazeneca. L’indagine è durata dal 13 al 23 aprile 2021 e si è conclusa con la sostanziale assoluzione del vaccino.
Le ragioni per cui questo evento non ha prodotto alcun serio intoppo nelle politiche vaccinali degli Stati Uniti sono almeno tre: i) fin da subito, Cdc e Fda hanno comunicato con chiarezza che l’indagine nasceva da «un eccesso di prudenza» (an abundance of caution), e non da effettive preoccupazioni sulla sicurezza del vaccino; ii) l’indagine è stata avviata quando la campagna vaccinale statunitense era già a buon punto, ben più avanti di quanto non fosse in Europa all’esplodere del caso Astrazeneca (a metà aprile 2021, il 23% dei cittadini statunitensi aveva terminato la vaccinazione e il 37% aveva ricevuto almeno una dose, rispetto al 6% e al 16% nell’Ue, rispettivamente); iii) terminata l’indagine, il vaccino Janssen ha ripreso immediatamente a essere somministrato in tutti gli Stati, senza limitarne l’uso a nessuna categoria specifica (tranne segnalare che i rarissimi decessi si erano registrati solo fra donne sotto i 60 anni, quindi per costoro si suggeriva di prestare particolare attenzione a eventuali vulnerabilità pregresse).
Proprio su quest’ultimo aspetto è evidente la distanza con la parabola europea di Astrazeneca: dopo le inquietanti rassicurazioni fornite dall’Ema, a metà aprile 2021 la Danimarca ha deciso di interrompere del tutto l’uso del vaccino, mentre nel resto di Europa quasi tutti gli Stati ne hanno limitato la somministrazione a persone oltre una certa fascia di età (in Italia, 60 anni), benché l’Ema non avesse fornito raccomandazioni in tal senso. Questo, fra l’altro, ha prodotto un bizzarro ribaltamento di posizioni: prima Astrazeneca era consigliato quasi ovunque solo per persone sotto i 65 anni, data la mancanza di prove certe dell’efficacia nella popolazione più anziana; ora invece è raccomandato solo per persone sopra i 60 anni, in quanto meno esposte ai rischi. Si noti anche il tentativo tragicomico di veicolare simultaneamente tanto il messaggio «rischi inesistenti», quanto la cautela «sotto i 60 anni meglio di no, per ridurre i rischi». Come se all’amico che ci viene a trovare offrissimo un bicchiere d’acqua, dicendogli: «Sono certo che sia potabile, ma fossi in te non la berrei…».
Da ultimo, l’Ue, poco dopo avere avviato un’azione legale contro Astrazeneca per il mancato rispetto delle consegne, a inizio maggio 2021 ha annunciato che il contratto con la casa farmaceutica, in scadenza a giugno, non verrà rinnovato. Nonostante Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno e i servizi, si sia affrettato a chiarire che il problema riguarda l’inadempienza nelle consegne e non la qualità del vaccino, sicuramente questa mossa non ha aumentato la fiducia dei cittadini europei verso Astrazeneca; infatti segnalazioni di vaccini Astrazeneca inutilizzati in quanto rifiutati dai pazienti si moltiplicano, anche in Italia.
A conti fatti, per Astrazeneca l’assoluzione per non avere commesso il fatto si è paradossalmente risolta con l’esecuzione dell’imputato sulla pubblica piazza. Ben diverso l’esito osservato per il vaccino Janssen negli Stati Uniti, dove non c’è stata alcuna crisi di fiducia: segno che essere prudenti è possibile, senza per questo rinfocolare immotivatamente l’esitazione vaccinale.
Diverso è l’esito osservato per il vaccino Janssen negli Usa, dove non c’è stata alcuna crisi di fiducia: segno che essere prudenti è possibile, senza rinfocolare l’esitazione vaccinaleNel concludere queste riflessioni sulle mezze verità della comunicazione vaccinale europea, non possiamo dimenticare un aspetto rimasto incredibilmente sullo sfondo: la maggiore economicità del vaccino Astrazeneca, rispetto agli altri in uso nell’Ue. Non si tratta di una differenza marginale, bensì di un divario notevolissimo: in media, una dose di Pfizer o di Moderna costa fino a dieci volte tanto una dose di Astrazeneca, mentre il vaccino Janssen (per ora disponibile solo in misura limitata nell’Ue) ha un costo intermedio, circa il triplo di Astrazeneca.
Ora, fermo restando che la salute è bene irrinunciabile, vale la pena ricordare che i dati raccolti non dimostrano affatto una maggiore pericolosità di Astrazeneca rispetto agli altri vaccini e che anche le perdite economiche di entità ingente si traducono con certezza in ricadute negative sulla salute dei cittadini. Ciò premesso, chiunque può divertirsi a calcolare nella propria testa quanto danno arrechi all’Ue spendere dieci volte tanto per vaccinare tutti i propri cittadini o anche solo una significativa frazione di essi. Fatto il calcolo, è lecito domandarsi se la certezza di un costo così elevato sia giustificata dal timore di un rischio presunto che, come abbiamo visto, è mera illusione ottica di una comunicazione maldestra.
Nel rispondere a tale quesito, non giova a nessuno immaginare oscuri complotti dietro alla triste vicenda. Eppure, l’episodio ci pone uno sgradevole dilemma: o i macroscopici errori nella vicenda Astrazeneca sono frutto di insipienza comunicativa ai massimi livelli dell’Ue e di molti Paesi membri, oppure c’è del marcio in Danimarca, e non solo lì. Ai posteri l’ardua sentenza: noi possiamo solo registrare come l’Ue, già abbastanza indietro nella campagna vaccinale contro il Covid-19, abbia scelto di privarsi di un vaccino efficace, sicuro, economico, facile da trasportare e conservare, per ragioni riconducibili a un mix di comunicazione fallace, pavidità politica e conflitti di interessi.
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