Nel suo discorso di insediamento il presidente della Repubblica ha posto un aut aut alle forze politiche: l’unica scelta è un governo di larghe intese, una pratica comune a tutte le democrazie, non soltanto fra partiti affini ma anche fra realtà fieramente opposte, quando ve ne sia la necessità per il bene del Paese.

A questo punto della situazione, con i raggruppamenti politici e le forze rappresentate in Parlamento che si sono infilate in un cul de sac istituzionale, questa appare come l’unica scelta praticabile. Ma il presidente della Repubblica sa benissimo, avendolo sperimentato durante il precedente settennato attraverso i continui conflitti istituzionali sollevati dal governo di centrodestra, quali sono le ragioni per le quali Bersani, onore al merito, e il Pd si sono a lungo battuti contro questa soluzione.

Se infatti, come il presidente ha segnalato, non può esistere democrazia senza partiti, e i partiti devono organizzarsi in forme democratiche (come previsto dalla carta costituzionale); se è vero che occorre unità nazionale, coesione sociale e territoriale (come dallo stesso Napolitano più volte, anche nel discorso d’insediamento, è stato ricordato); se è vero che il bene comune deve prevalere sugli interessi di parte e vanno salvaguardate e non delegittimate le istituzioni, allora va chiaramente detto che le esperienze di governo della destra di Berlusconi sono state la negazione di tutto ciò. E la crisi che attraversa il Paese, non soltanto economica e sociale, ma crisi di legittimazione della politica, sfiducia dei cittadini nella capacità di trovare una via d’uscita ai problemi che ci affliggono, crisi istituzionale, è il frutto avvelenato di anni e anni di governi di centrodestra che hanno lavorato contro il Paese.

È questo che differenzia l’Italia dalle altre democrazie europee. Una destra che ha lavorato per disgregare l’unità nazionale e la coesione sociale, che ha seminato sfiducia nelle istituzioni provando a minarne la credibilità, che ha lavorato (ben scavato vecchia talpa!) ad abbassare il “costo morale” dei comportamenti sleali posti in essere dai cittadini, premiando attività opportunistiche, evasioni fiscali, corruttele. Ma, soprattutto, una destra che ha praticato una concezione patrimonialistica dello Stato, ponendosi continuamente al di sopra e al di fuori delle regole, contrapponendo la legittimazione del prescelto dal popolo alle regole di equilibrio dei poteri tipiche delle Costituzioni moderne.

Il presidente lo sa, ma non può dirlo. E oltretutto sa che se lo dicesse sarebbe, oltre che improprio istituzionalmente, irrilevante politicamente. Perché anche e soprattutto nella politica “per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”.