Negli ultimi anni, a partire dal 2008, complice la crisi economica, è stata riscoperta la figura di Karl Marx, uscita così dalle cerchie degli specialisti che (ancora) se ne occupavano e smentendo la profezia di chi lo voleva ormai nell’immondezzaio della storia. Nel 2017 è anche uscito un film che racconta le vicende del giovane Marx fino alla redazione del Manifesto e alla vigilia della rivoluzione del marzo 1848, la prima autenticamente europea. La scelta del Museo di Storia nazionale di Berlino, il Deutsches Historisches Museum, di dedicare una mostra temporanea, molto compatta ma anche bella ed efficace, al filosofo di Treviri (Karl Marx und der Kapitalismus) si colloca certamente all’interno di questa sua rinascita.

Va detto che il Museo berlinese ha avviato da tempo una sua riconfigurazione, di pari passo con il ruolo di capitale che ha assunto la città-Stato: non si tratta solo di ripensare la storia nazionale e di contribuire al dibattito sul passato tedesco, che è una costante della Repubblica federale, ma di provare a dare visibilità e partecipare alle discussioni che animano lo spazio pubblico globale. Così, ad esempio, la mostra sui cent’anni di Weimar diventa anche un modo par raccontare la democrazia tout court e c’è da scommettere che la nuova mostra permanente di storia tedesca, accessibile dal 2025, costituirà un altro passo, forse quello più importante, in questa direzione.

Il percorso espositivo inaugurato la settimana scorsa e allestito fino al prossimo 21 agosto non è solo dedicato alla figura di Karl Marx ma, più precisamente, alla sua analisi del capitalismo, che ne costituisce così l’«altro» grande protagonista. Probabilmente dispiacendo quanti sono andati teorizzando in questi anni che il capitalismo, semplicemente, non esiste, sia per naturalizzarlo, sia per neutralizzare l’analisi marxiana della sua crisi.

La biografia di Marx – che per inciso tocca Berlino per pochissimi anni, quando era studente universitario – è solo la filigrana per raccontare l’Ottocento europeo

A guidare il visitatore è proprio la biografia di Marx – che per inciso tocca Berlino per pochissimi anni, quando era studente universitario – ma è solo la filigrana per raccontare l’Ottocento europeo. A partire dalla delusione del 1848 con il passaggio dalla rivoluzione politica del Marx umanista – rappresentato nella mostra dalla polemica con Bruno Bauer sulla Questione ebraica, dalle Tesi su Feuerbach e in particolare la celebre undicesima: «I filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo; si tratta di trasformarlo», dal fallimento della rivendicazione di una repubblica tedesca al suo testo forse più famoso e tradotto, il Manifesto – fino all’analisi matura  del Capitale, di cui si può osservare un’edizione con appunti a margine dello stesso Marx, e della rivoluzione come fenomeno di radicale trasformazione della società in seguito a crisi del capitalismo sempre più frequenti e di sistema. Un tentativo, in estrema sintesi, di spiegare in determinati momenti storici la necessità delle rivoluzioni.

In questo modo al centro, anche fisico, della mostra c’è, né più né meno, che la questione sociale: lo sviluppo e l’organizzazione del movimento dei lavoratori che procede di pari passo allo sviluppo industriale. Letteralmente si cammina tra le macchine, come ad esempio un modello di quella a vapore, che sancisce, modificando la lavorazione del cotone, «la nascita della storia della classe operaia» nella seconda metà del Settecento, come scrive Friedrich Engels nell’introduzione a La situazione della classe operaia in Inghilterra. Inoltre, il suo rumore invasivo, riprodotto periodicamente dagli altoparlanti, invita i visitatori a riflettere almeno per un attimo su quali fossero le condizioni in cui versavano i lavoratori. È in questa sezione che vengono messi in risalto due aspetti.

Al centro, anche fisico, della mostra c’è, né più né meno, che la questione sociale: lo sviluppo e l’organizzazione del movimento dei lavoratori che procede di pari passo allo sviluppo industriale

Da un lato la critica marxiana alle contraddizioni dello sviluppo del capitalismo. La mostra invita a tener presente, con una intelligente e intuitiva installazione, in quali condizioni, di sfruttamento e alienazione, viene realizzato ancora oggi un semplice paio di scarpe. A questo proposito Marx sarebbe stato contento di sapere che proprio a Berlino appena qualche settimana fa un collettivo di lavoratori, la cui attività consiste nel recapitare in bicicletta la spesa a casa di chi effettua un ordine mediante una app, dopo scioperi, blocchi e proteste è riuscito a far eleggere il suo consiglio con il quale l’azienda dovrà confrontarsi. In questo modo il quadro di Johann Peter Hasenclever, Lavoratori e il consiglio cittadino nel 1848, che la mostra sintetizza così «un lavoratore sicuro di sé consegna al magistrato cittadino una petizione», sembra parlare anche delle vicende a noi contemporanee. Incluse le facce preoccupate, terrorizzate o spesso infastidite di quanti pensano che quelle petizioni rappresentino un pericolo per il solo fatto di essere state formulate: non è solo una questione di salario, ma di potere.

È inoltre possibile scoprire una memorialistica delle prime associazioni operaie, dei congressi, degli inevitabili scontri interni, degli scioperi (splendido il quadro esposto di Robert Koehler, Lo sciopero, nel quale la trattativa in corso fuori dall’azienda sembra potersi interrompere da un momento all’altro e concludersi in modo violento, come rivela uno scioperante che comincia a raccogliere sassi) ma anche della funzione civilizzatrice di queste organizzazioni nella storia europea e mondiale.

Dall’altro, anche sulla base delle più recenti interpretazioni, la mostra presenta un Marx attento all’ambiente e allo sfruttamento indiscriminato dei suoli, che finiscono per non essere più fertili e che richiedono nuove tecnologie che però hanno un impatto estremamente negativo su altre zone del mondo: «Ogni progresso nella crescita della fertilità dei campi per un dato periodo è allo stesso tempo un avanzamento della rovina delle fonti di questa fertilità […] La produzione capitalista sotterra le fonti di ogni ricchezza». Si dà poi spazio all’incompatibilità tra una Terra finita e uno sviluppo che pretende di non avere limiti e al feticismo delle merci. Non è solo la celebre critica giovanile alle leggi prussiane sui furti di legna, che pure trova spazio nell’esposizione berlinese, ma esattamente una maggiore attenzione alla natura e alle sue risorse. C’è tempo anche per una critica per la fede eccessiva del giovane Marx nella missione «civilizzatrice» degli europei, mentre quello più maturo non esiterà a denunciare il saccheggio coloniale e a «distanziarsi da un’idea eccessivamente eurocentrica di progresso». Aspetti, dunque, sui quali la mostra offre spunti che certamente possono contribuire ad avviare un dibattito fecondo e interessante.

A voler essere eccessivamente critici, però, al termine della visita si ha l’impressione che qualcosa sia mancato. Certo, se si accetta, come si accennava all’inizio, la missione del Deutsches Historisches Museum di essere un’istituzione della globalizzazione e, quindi, di provare a star dentro a uno spazio pubblico similmente globale, ci si potrebbe anche fermare qui, con pieno successo perché indubbiamente il percorso espositivo ha assolto al suo compito «istituzionale». Tuttavia, c’è qualcosa che manca e non si tratta di una critica quasi ovvia, perché ogni mostra di questo genere, dovendo operare una sintesi, difetta di qualcosa: completamente sparita è in questo caso la profondità del dibattito tedesco nella socialdemocrazia e nella classe operaia dalla seconda metà dell’Ottocento.

Vale a dire, cioè, da un lato la questione «azionale» tedesca per la quale il fallimento del 1848 costituisce l’occasione per il progetto autoritario di Bismarck. Dall’altro la critica che, ad esempio, Eduard Bernstein formulò contro i suoi maestri Marx ed Engels accusati di essere rimasti in fondo ancora troppo hegeliani. Quell’Hegel che è possibile ammirare a rovescio nella prima stanza della mostra e che solo tramite un piccolo trucco ottico può essere visto nella posizione corretta: un modo per materializzare quel rovesciamento delle idee di Hegel di cui la teoria marxiana è stata capace ma solo fino a un certo punto, come ricordava Bernstein, che contestava lo sviluppo capitalista anticipato da Marx (come la concentrazione delle aziende e lo sviluppo di grandi oligopoli) e quindi suggeriva un cambiamento della linea politica socialdemocratica.

Tuttavia, se si tralascia la fucina della socialdemocrazia tedesca delle origini stretta tra questione «nazionale» tedesca e diversità interne (ad esempio a partire sempre da Marx e dalla sua critica al programma di unificazione tra le due anime del movimento operaio) e la discussione sullo sviluppo del capitalismo prima del conflitto mondiale, non è possibile comprendere né la crisi della Spd di fronte alla guerra, né il suo ruolo durante la rivoluzione del 1918-1919 e durante la Repubblica di Weimar fino alla stessa «svolta» di Bad Godesberg. E difficilmente si capisce anche senso e natura della socialdemocrazia contemporanea a partire dal 1949 e che oggi esprime nuovamente il cancelliere federale.

Come detto, però, si ha l’impressione che sia proprio il ruolo che il Deutsches Historisches Museum intende assumere, quale istituzione globale e quindi difficilmente disposto a ripercorrere queste sfumature di storia nazionale, a determinare questa impostazione. Se è inevitabile che Berlino assuma questa funzione – anche se è forse impensabile un ruolo come quello del British Museum che riesce a coniugare efficacemente la storia globale a quella nazionale – è forse il caso che emergano anche altre istituzioni tedesche ed europee capaci di sollecitare pubblicamente percorsi di riflessioni anche questi aspetti del dibattito.