L’escalation della violenza di matrice jihadista, ispirata a una visione estremistica dell’islam politico, è sotto gli occhi di tutti. Basta ricordare l’attacco al museo del Bardo di Tunisi del 18 marzo, costato la vita a 24 persone (compresi quattro turisti italiani), o il massacro di studenti cristiani perpetrato dal gruppo somalo al-Shabaab all’Università di Garissa, in Kenya, il 2 aprile scorso (giovedì santo). Sino a pochi anni fa la minaccia della violenza jihadista appariva in declino. In particolare, un decennio dopo i catastrofici attentati suicidi dell’11 settembre, al-Qaida aveva perso il suo fondatore e leader carismatico, Osama Bin Laden (ucciso ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio 2011), e sembrava, per molti versi, in crisi. Inoltre, lo scoppio della cosiddetta “Primavera araba”, nel 2010-2011, pareva suggerire alle masse del mondo islamico una via efficace per contrapporsi ai regimi autoritari, ben diversa da quella propagandata dalle avanguardie della jihad armata.
Oggi, al contrario, la minaccia della violenza jihadista ha riacquistato slancio. Milizie e organizzazioni terroristiche sono attive in numerosi Paesi del Medioriente, dell’Asia e dell’Africa (comprese alcune zone della vicina Libia). Questa costituisce la prima faccia della minaccia jihadista. Particolare attenzione va, naturalmente, al caso dello Stato islamico dell’Iraq e al-Sham [“Grande Siria”] (Isis nell’acronimo in inglese, Daish in arabo), la brutale formazione di Abu Bakr al-Baghdadi che ha proclamato unilateralmente l’instaurazione del “califfato” il 29 giugno del 2014, definendosi semplicemente “Stato islamico”.
A differenza delle organizzazioni propriamente terroristiche, l’Isis attualmente è in grado di esercitare il proprio controllo su un territorio e su una popolazione di dimensioni cospicue, alla stregua di uno Stato. Nelle ultime settimane l’organizzazione ha subito importanti sconfitte militari in Iraq, ma ha mostrato di poter reagire tanto in Iraq quanto in Siria. Oltretutto, il sedicente “califfato” ha rivendicato il grave attentato suicida eseguito all’ingresso di una banca a Jalalabad, in Afghanistan, il 18 aprile.
Gli sforzi militari dell’Isis sul campo sono affiancati e rafforzati da una vasta e sofisticata attività di propaganda, su diversi canali e piattaforme: video, riviste (come il magazine patinato Dabiq), opuscoli, comunicazioni su vari social media (a cominciare da Twitter) ecc. L’Isis si rivolge a pubblici differenti, in varie lingue. Lo dimostra, per esempio, un video musicale di alta qualità che contiene un inno colmo di minacce truculente "contro l’alleanza della miscredenza" in arabo con sottotitoli in italiano.
In aggiunta a questa comunicazione “ufficiale”, che procede dall’alto verso il basso, l’Isis beneficia di una fitta attività di propaganda non ufficiale, svolta da fiancheggiatori e simpatizzanti. Per esempio, in febbraio ha destato attenzione la notizia della diffusione su internet di un corposo documento di propaganda in italiano, intitolato Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare, che assembla nozioni e temi già divulgati dall’Isis. Il presunto autore del compendio, un giovane cittadino italiano di origini marocchine, è stato arrestato in Piemonte il 25 marzo.
L’Isis si sta affermando come la più influente e potente sigla del movimento jihadista globale, surclassando anche al-Qaida. Numerosi gruppi armati che condividono orientamenti ideologici simili hanno ormai riconosciuto questa posizione di superiorità. Per esempio, il 7 marzo i vertici del gruppo armato noto con il nome di Boko Haram, con base nel Nord Est della Nigeria, hanno formalmente giurato fedeltà all’auto-proclamato “califfo” al-Baghdadi. Altri gruppi che hanno tradizionalmente legami e affinità con al-Qaida guardano con crescente interesse all’Isis.
Ovviamente la minaccia di matrice jihadista non interessa soltanto il mondo islamico, come ci hanno ricordato gli attacchi terroristici del 7-9 gennaio a Parigi e del 14-15 febbraio a Copenaghen. L’Isis e altre milizie e organizzazioni jihadiste hanno ripetutamente invitato seguaci e simpatizzanti a realizzare attacchi terroristici in Europa. L’Italia non sfugge a questi rischi, anche per la valenza simbolica di Roma come sede storica della Cristianità.
In Europa le manifestazioni più recenti e preoccupanti di questa seconda faccia della minaccia sono costituite dagli jihadisti “autoctoni” (homegrown in inglese), di seconda/terza generazione oppure convertiti, e dai cosiddetti foreign fighters (combattenti stranieri).
Gli attacchi di Parigi e di Copenhagen sono stati realizzati proprio da quattro giovani che erano nati e cresciuti rispettivamente in Francia e in Danimarca. La questione dell’immigrazione non ha quindi una rilevanza diretta in questo fenomeno. Chiaramente gli jihadisti di seconda o terza generazione costituiscono una minaccia molta impegnativa per le autorità poiché sono difficili da individuare e da fermare. Discorso simile vale per i cittadini europei che si convertono all’Islam e decidono di abbracciare la causa jihadista.
Di recente la minaccia jihadista in Europa ha assunto una nuova forma inquietante, quella dei foreign fighters ovvero gli individui che decidono di combattere con milizie di ispirazione jihadista in conflitti armati all’estero. Naturalmente il timore è che alcuni di loro possano ritornare nei Paesi di origine o recarsi in altri Paesi per realizzare atti terroristici.
Oggi la principale destinazione dei foreign fighters europei è l’area del conflitto in Iraq e Siria, nel cuore del mondo arabo. Questo fenomeno riguarda ormai migliaia di individui. Da ultimo, in un’intervista rilasciata al quotidiano «Le Figaro» il 12 aprile, la Commissaria europea per la Giustizia, la ceca Věra Jourová, ha dichiarato che i foreign fighters europei “sono tra i 5.000 e i 6.000” e ha aggiunto che queste cifre potrebbero essere “fortemente sottostimate”.
In questo contesto, il contingente italiano appare di dimensioni limitate. Recentemente, in un’audizione al Parlamento dell’11 marzo il presidente del Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo (Casa), Mario Papa, ha fatto riferimento a 65 foreign fighters legati al nostro Paese. A ben guardare, si tratta di una cifra relativamente bassa; molto distante dalle stime riguardanti altri grandi Paesi europei, come la Francia (1.200 foreign fighters), il Regno Unito (500-600) e la Germania (500-600).
Al fine di contrastare queste nuove minacce con maggiore efficacia, il 15 aprile il Parlamento ha convertito in legge, con alcune modificazioni, il decreto-legge “anti-terrorismo” del 18 febbraio. Il provvedimento, tra l’altro, stabilisce severe pene detentive per i foreign fighters (reclusione da cinque a otto anni), così come per i “lupi solitari” che progettano atti di terrorismo autonomamente (reclusione da cinque a dieci anni).
In conclusione, il pericolo, anche di carattere propriamente militare, rappresentato da vari gruppi armati in Iraq e Siria e in altre aree del mondo islamico finisce per saldarsi con la sfida terroristica lanciata da gruppi e singoli individui in Europa e in Occidente. Si tratta di due minacce che, pur essendo collegate, richiedono risposte differenti da parte degli Stati e della Comunità internazionale.
[Su questi temi, si rimanda all'articolo di Francesco Marone, Il nuovo volto del terrorismo jihadista, sul numero del "Mulino" in uscita (2/2015)]
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