Le discussioni di questi giorni sul ventennale di Mani pulite, e sulle sue reali conseguenze nella politica e nella società italiana, si sono spesso risolte nelle consuete sterili polemiche di partito e di fazione, e solo raramente hanno contribuito ad avviare una riflessione seria sul significato storico di quella operazione e sulle ragioni del suo sostanziale fallimento. In effetti, è difficile oggi liberarsi dal sospetto che, fra quanti proclamavano come quella stagione, con qualche arresto e qualche condanna “eccellente”, avesse finalmente tagliato la testa all’idra della corruzione, non pochi – lasciando da parte gli “ingenui” – fossero soprattutto interessati a farlo credere, in modo da avere campo libero per continuare indisturbati a corrompere e a farsi corrompere. Un po’ come avviene nello sport, quando si punisce in modo esemplare un campione, esponendolo brutalmente alla gogna giudiziaria e mediatica (da Marco Pantani a Diego Maradona), per diffondere l’idea che si sta combattendo efficacemente il doping e che, a parte certe “mele marce”, tutti gli altri sono in regola. Ma qualche elementare riflessione può forse giovare a comprendere per quali motivi la corruzione, in Italia, non poteva essere vinta da Mani pulite e dai suoi metodi.
1. La corruzione non si combatte a colpi di leggi e di regolamenti: nessuna legge, per quanto buona, può impedire comportamenti soggettivi illeciti o eticamente deplorevoli; anzi, più una legge è complessa e articolata, più presenta molteplici appigli e “anfratti” utili a chi voglia adottare comportamenti del genere.
2. L’idea che la corruzione si sconfigga con operazioni spettacolari (grandi processi, condanne esemplari) alimenta la corruzione stessa: da un lato, infatti, crea l’illusione che la sola corruzione pericolosa sia la macro-corruzione, mentre è vero il contrario (ciò che mina nel profondo il nostro paese è la capillare micro-corruzione, diffusa in ogni ambito e livello della società, e sulla quale quasi mai si accendono i riflettori, perché non fa notizia); dall’altro, produce la nefasta persuasione che si possa e si debba riformare lo stato per via giudiziaria, ricorrendo periodicamente a “purghe” e ad operazioni imponenti, anziché a interventi strutturali capaci di incidere in profondità e in modo duraturo sul “sistema”, anche e soprattutto ai livelli più bassi.
3. La corruzione, in Italia, è il prodotto (oltre che di un inarrestabile degrado etico) di due fattori tra loro strettamente connessi: una macchina statale ipertrofica e un assetto socio-economico fondato sullo strapotere di corporazioni, gruppi e lobbies. Il primo fattore ha determinato una proliferazione smisurata di enti, istituzioni, norme, uffici, passaggi burocratici, che inevitabilmente moltiplicano le occasioni di corruzione; il secondo rende necessario o consiglia fortemente il ricorso alla corruzione da parte di chi debba rapportarsi con tali gruppi o voglia entrare a farne parte.
Fare leva sui punti 1 e 2 consente a politici e giudici di acquistare visibilità e popolarità, legando il proprio nome a iniziative di immediata e vasta risonanza (anche se prive di effetti a lungo termine); viceversa, intervenire sui fattori di cui al punto 3 esporrebbe un governo al rischio concreto di cadere, e un partito a quello di perdere elettori. Perché significherebbe da una parte ripensare – e ridimensionare – il ruolo della politica (allo scopo di favorire un più libero dispiegamento dell’iniziativa individuale, al riparo dai troppi vincoli di uno Stato “pesante” e “vischioso”), dall’altra affrontare la fatica improba di abbattere privilegi ormai trasformatisi, a parere di chi ne beneficia da decenni, in diritti.
È vero infatti che l’onestà, come il coraggio, chi non ce l’ha non se la può dare; tuttavia, è anche innegabile che esistano “strutture” (sociali, economiche, amministrative, politiche) che inducono a comportamenti non trasparenti. Certamente, la corruzione, prima e oltre che un reato, è una colpa morale che ricade nella sfera della responsabilità personale (ed è sotto gli occhi di tutti che la progressiva deresponsabilizzazione degli individui chiamati a occupare ruoli pubblici ha favorito la trasformazione dello stato e delle amministrazioni in entità anonime nelle quali nessuno è chiamato a rendere conto di errori, disservizi, anomalie e abusi); ma neppure è lecito e realistico che uno stato pretenda dai suoi cittadini l’eroismo quotidiano e il sacrificio del proprio legittimo interesse.
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