Spanish revolution? Le elezioni “autonomiche” (regionali) e comunali spagnole hanno due sconfitti sicuri e due vincitori soltanto presunti. I primi sono il premier Zapatero e il suo partito, il PSOE. Da tempo in picchiata nei sondaggi e battuti nel voto catalano del novembre scorso, i socialisti sono stati travolti da un’ondata di malcontento, pressoché doppiati nelle comunità di Madrid e Valencia dal PP, primo partito quasi ovunque, e sconfitti in roccaforti storiche come Barcellona, Siviglia e Cordoba, o le regioni di Castilla-La Mancha ed Extremadura. A far colare a picco i socialisti è il pessimo giudizio sull’ex-enfant prodige della sinistra europea, reo di non aver affrontato in modo credibile la terribile crisi economica che affligge il paese con 5 milioni di disoccupati (oltre 40% tra gli under 25). In secondo luogo, una lunga serie di gravi casi di corruzione, fatto non nuovo in casa socialista, come quelli che a metà anni Novanta portarono alla sconfitta di Felipe Gonzalez.

Il problema per il PSOE è, se possibile, ancora più grave: non si tratta di una sconfitta elettorale, accettabile in democrazia, ma della perdita di credibilità, in termini quasi sistemici, di un’intera generazione di politici, quella cresciuta e promossa da Zapatero. Benché abbia scelto di non ricandidarsi alle prossime elezioni, chiunque lo sostituirà come leader del partito riuscirà difficilmente a smarcarsi dai suoi otto anni di governo, e in un paese come la Spagna, dove l’età media della classe politica è alquanto bassa, ancora di più se paragonata all’Italia, questo potrebbe sfociare in una profonda crisi e mancanza di alternativa.

Dall’altro lato, pochi possono considerarsi veri vincitori. Innanzi tutto il PP. Indubbio trionfatore percentuale del voto, porta tuttavia con sé alcune ombre: una quantità di consensi assoluti inferiore rispetto alle precedenti elezioni del 2007, segno che la crescente protesta è indirizzata ad entrambi i grandi partiti nazionali, ed un numero altrettanto ampio di scandali giudiziari, ad esempio l’inchiesta sul ri-eletto Presidente della Comunità Valenciana, Francisco Camps, esplicitamente paragonato a Berlusconi. Con le prossimo elezioni nazionali, il PP tornerà alla Moncloa. Ma lo farà, probabilmente, in qualità di “meno peggio”, non di una consapevole svolta liberal-conservatrice in una sana alternanza di governo. Sarà, per così dire, il PSOE a (continuare a) perdere le elezioni, non il PP a (continuare a) vincerle. E per la salute di una giovane democrazia come quella spagnola, in cui i cleavages territoriali – dai catalani al neo-nato partito basco Bildu – sembrano tornare alla ribalta, questa è una notizia tutt’altro che buona.

Infine gli “indignati”. Un incrocio tra social forum e popolo viola, si scagliano con grande passione contro la partitocrazia bipartitica, la corruzione dei politici, i privilegi intaccati delle banche, la disoccupazione che ipoteca sogni e ambizioni. Un movimento non violento, senza leader e simboli (nemmeno quelli della sinistra radicale e dei sindacati), la prima esperienza di socializzazione politica della prima generazione di spagnoli nati e cresciuti durante la democrazia, sulle ceneri del boom economico e le ali di Facebook e Twitter. Così genuino da risultare, per molti versi, naїf.

Chi sostiene che anche gli indignati, in qualche modo, abbiano vinto, dice una verità molto parziale. Innanzi tutto perché coinvolgono, almeno per ora, una minima parte della società: l’astensione, il 33% su scala nazionale, è addirittura calata. Piuttosto, costoro rappresentano una risposta civica di giovani, ma non solo, che chiedono che la conoscenza e la trasparenza prevalgano sulla superficialità, la corruzione e il nepotismo. Un passo importante, ma ancora il primo. Altri dovranno seguire, come una maggiore partecipazione politica e la disponibilità dei politici ad aprirsi alle domande dei nuovi gruppi sociali, specie quelli dagli interessi più diffusi. Fino ad allora, in Spagna come altrove, continueranno ad esserci sconfitti veri e vincitori presunti.