Il 24 marzo dell’anno prossimo cadranno i 150 anni dalla nascita di Luigi Einaudi: una figura, quella del primo presidente eletto dell’Italia repubblicana, ancora non pienamente indagata, nonostante il suo settennato fu dirimente nel processo di legittimazione del ruolo del capo dello Stato. Tramite uno stile discreto e competente, fu in grado di assicurare la garanzia e l’equilibrio costituzionale tra i poteri nonché l’autorevolezza della Repubblica. E proprio al suo percorso – Einaudi come costruttore della democrazia e dell’immagine della Repubblica – e al suo esempio guardarono in seguito diversi suoi successori. Lo stesso Sergio Mattarella ne ha fatto un riferimento importante del suo duplice mandato. Occorre insomma interrogarci sullo «stile presidenziale» einaudiano e ritessere i fili di una ancora incompiuta storia dell’immaginario repubblicano tramite le figure dei nostri presidenti.
Einaudi fu uno dei principali studiosi ed esponenti del liberalismo economico già dalla prima metà del XX secolo. Dopo l'8 settembre 1943 prese la via dell’esilio in Svizzera, da dove rientrò il 9 dicembre 1944, richiamato dal governo Bonomi per assumere a Roma, ormai liberata, la carica di governatore della Banca d'Italia. Membro della Consulta nazionale, fu eletto alla Costituente e partecipò della scrittura della Costituzione. Entrato nel maggio 1947 nel IV governo De Gasperi come vicepresidente del Consiglio, ne divenne ministro del Bilancio. Fedele ai principi del liberismo, ebbe ampi poteri nella direzione della politica economica, intesa a combattere l'inflazione con provvedimenti di restrizione creditizia.
Provenendo da una longeva cultura sabauda e monarchica, quando il Parlamento lo elesse presidente, l'11 maggio 1948, sorprese gli osservatori e la gran parte degli italiani pronunciando senza infingimenti il richiesto giuramento di fedeltà alla Repubblica. Rispetto alla maggioranza centrista che lo aveva eletto, egli interpretò il suo ruolo in modo tutt’altro che notarile, facendosi apprezzare per doti e stile personali. Nel suo discorso di insediamento, il 12 maggio 1948, richiamò la Costituzione nel presentarsi come «tutore della sua osservanza», sottolineandone i due principi fondamentali: la «libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata» e «qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza».
Rispetto alla maggioranza centrista che lo aveva eletto, egli interpretò il suo ruolo in modo tutt’altro che notarile, facendosi apprezzare per doti e stile personali
Nel succedere al napoletano Enrico De Nicola, non dissimulò affatto la sua matrice monarchico-sabauda, ma fu altrettanto deciso nell’affermare il suo giuramento di fedeltà alla Repubblica:
«Chi gli succede ha usato, innanzi al 2 giugno 1946, ripetutamente del suo diritto di manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti dei suoi paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italia; ma, come aveva promesso a se stesso e ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione».
L’eco di quelle parole fu ampia. Vennero meno le perplessità di alcuni tra i più autorevoli portavoce dei valori repubblicani:
«Il discorso di Einaudi ha fatto ottima impressione specialmente per il punto in cui ha detto di avere votato per la monarchia, ma di accettare ora onestamente la Repubblica».
E ancora:
«Sono andato a trovare Einaudi […]. Fa un buffo effetto vederlo al Quirinale, fra maggiordomi, corazzieri tutti lustri come pentole di rame ripulite col Sidol, lui che odia ogni sperpero, ogni forma di parassitismo. Ma sono contento che sia a quel posto. È l’uomo che ci voleva per dar fiducia nella Repubblica. Ha più popolarità di qualsiasi politicante professionale» (rispettivamente G. Salvemini ed E. Rossi, in Dall'esilio alla Repubblica: lettere 1944-1957, a cura di M. Franzinelli, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 341 e 347).
Nel momento in cui lasciò il Quirinale, l’impronta che egli seppe infondere all’immagine della Repubblica – i simboli e i rituali civili, l’autorevolezza nelle decisioni prese e l’indipendenza dalle compagini governative – fu apprezzata anche da Piero Calamandrei, di cultura azionista e già membro, come Einaudi, dell’Assemblea costituente. «La Repubblica è una realtà che ogni giorno si consolida; indietro non si torna. La forma repubblicana, le istituzioni repubblicane, che sono la prima condizione giuridica del rinnovamento sociale, si rafforzano ogni giorno e diventano costume». Di quel «costume repubblicano» e del «senso di serietà e di composta dignità» impresso alla vita pubblica, continuava Calamandrei, Einaudi era stato l’ispiratore e l’esempio, nel corso di sette anni «durante i quali egli ha saputo reggere e rafforzare con esemplare equilibrio i destini ancora vacillanti della giovane Repubblica» (Orazione pronunciata dal Prof. On. Piero Calamandrei, 2 giugno 1955, in «Resistenza e Repubblica», a cura dell’Amministrazione provinciale di Forlì, sd. [ma 1975], pp. 15-16).
Una immagine, quella di Einaudi, che il presidente Mattarella, nel confrontare e ravvivare la memoria degli inquilini del Quirinale nel discorso pubblico, ha voluto riprendere. Lo ha fatto il 12 maggio 2018 a Dogliani, in occasione del settantesimo anniversario del giuramento e dell’entrata in carica. A Einaudi, ha osservato Mattarella, «è toccato, allora, con Alcide De Gasperi, il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata». Ne richiamò anche lo stile presidenziale:
«Con la discrezione e la fermezza che lo caratterizzavano diede vita a un dialogo di permanente e leale collaborazione istituzionale, proponendo una penetrante “moral suasion” nei rapporti con il governo, a partire dall’esercizio del potere previsto dall’articolo 87 della Costituzione […]. Consigli, previsioni, esortazioni che gli valsero, da taluno, la definizione di pedante».
Sono sempre attuali le Prediche inutili, apparse in dispense dopo che Einaudi aveva concluso il suo settennato, pubblicate la prima volta nel 1959. Le convinzioni dello studioso e il realismo dello statista di profonda cultura liberale si palesarono nel perseguito «buon governo» einaudiano, cui corrispondeva la predilezione per un’azione politica ed economica fondata su valori etici nonché su una prospettiva di lungo periodo in cui si coniugassero gli obiettivi dell’efficienza e dell’equità, della responsabilità pubblica e dell’integrazione (sul piano sia nazionale sia europeo). Gli esempi sarebbero diversi. Se ne richiamano alcuni, di cui evidenziare – di volta in volta – la primogenitura nelle manifestazioni dello stile presidenziale ovvero la persistente attualità nei mutevoli equilibri tra i poteri istituzionali.
Significative furono le prese di posizione di Einaudi in occasione delle alluvioni che colpirono il Paese nei primi anni Cinquanta, la cui eco postuma si lega a quella recente delle inondazioni che hanno colpito la Romagna. Già allora, con l’assistenza alle popolazioni colpite, dirimente risultò la questione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Nel quadro del tema einaudiano del «buon governo» essa richiamava l’impegno dello Stato, così come della società civile e dei cittadini tutti, nella promozione di piani urbanistici e di una difesa idro-geologica, della valorizzazione di beni culturali e beni comuni (le risorse naturali e il loro utilizzo). Dopo la sua visita in Polesine del dicembre 1951, egli scriveva: «La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli italiani».
Dopo la sua visita in Polesine del dicembre 1951, Einaudi scriveva: “La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi”
E ancora: «Già ora corre sulle labbra di tutti, al Sud e al Nord, la sentenza: “A memoria d’uomo non è mai accaduto nulla di simile al disastro odierno”. Perciò si confida che nulla di simile accada in avvenire… Ma la storia narra, al Sud e al Nord, di inondazioni disastrose uguali a quella odierna». E poi continuava, come se stessimo interrogandoci oggi ancora su cause ed effetti delle reiterate distruzioni del paesaggio:
«Ci rassegneremo ancora una volta? Dimenticheremo, di fronte all’urgenza di sempre nuovi problemi pressanti, che il problema massimo dell’Italia agricola è la difesa, la conservazione e la ricostruzione del suolo del nostro Paese contro la progressiva distruzione che lo minaccia? Dalle Alpi e dagli Appennini […] giù sino alle montagne della Calabria, della Sicilia e della Sardegna, gran parte della terra italiana va in disfacimento. […] Per sapere il perché dei villaggi e delle case travolti dalle acque, degli agrumeti, dei vigneti e degli orti scomparsi non basta guardare alle strade, ai ponti ed agli argini. […] La origine delle pianure distrutte, delle strade e dei ponti rovinati è nelle montagne che stanno sopra ed intorno; ma la responsabilità spetta agli uomini che hanno diboscato per conquistare terra al frumento e al pascolo. Oggi la montagna, fradicia di pioggia, scivola nella valle. Nella valle padana lo scivolamento vuol dire innalzamento del livello del letto dei fiumi, divenuti per tratti di centinaia di chilometri, pensili; oggetto di ammirazione e di sgomento a chi vede le barche scorrere, quasi sospese nell’aria, bene al disopra del tetto delle loro case» (Della servitù della gleba in Italia, 15 dicembre 1951: cfr. R. Einaudi, Rileggere Luigi Einaudi, in Luigi Einaudi 1961- 2021, numero speciale, supplemento al n. 105 di «Libro Aperto», 2011, pp. 11-12.).
Non mancarono polemiche verso l’azione del presidente. Ciò accadde soprattutto in occasione della promulgazione della legge elettorale del 1953 e nel contestuale scioglimento del Senato, cui seguirono la mancata introduzione del premio di maggioranza nel voto del 7 giugno e il fallito reincarico governativo a De Gasperi, costretto al ritiro dalla vita pubblica. Nella gestione della crisi, Einaudi si avvalse dei poteri che la Costituzione gli assegnava e si oppose all’interferenza dei partiti nello svolgimento delle sue prerogative presidenziali. Incaricò Giuseppe Pella, il quale formò un monocolore democristiano di minoranza autodefinitosi «governo della nazione», che ottenne la fiducia grazie al voto dei monarchici: apparve come una sorta di «governo del presidente» – un primo esempio, nella storia dei settennati – e sarebbe durato meno di sei mesi, in primo luogo per l’opposizione del gruppo parlamentare democristiano e quindi per il riverbero eclatante della supremazia dei partiti nella vita democratica.
In circostanze ancor più drammatiche sarebbe stato il presidente Oscar Luigi Scalfaro, nell’aprile 1993, a patrocinare un governo tecnico o istituzionale di sua diretta pertinenza, incaricando addirittura una figura estranea al mondo politico, come quella di Carlo Azeglio Ciampi, in quella contingenza governatore della Banca d’Italia (come Einaudi nel 1948) e destinato ad accedere al Quirinale di lì a pochi anni. Non senza trascurare quindi – per Einaudi come per Ciampi (e altri forse in futuro?) – il fatto a suo tempo sottolineato da Ernesto Rossi: vale a dire la popolarità che possono godere, rispetto ai politici di professione, quelle figure autorevoli e stimate, provenienti da vertici di istituzioni apicali come la Banca d’Italia, capaci di personificare meglio di altre l’immagine della Repubblica.
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