Quella di «esperto di comunicazione» non è probabilmente la prima professione che viene in mente quando si pensa a Lucio Dalla, eppure in quasi settant’anni di vita (è morto il 1o marzo 2012, due giorni prima di compierli) è stato anche quello. Nel 2003 tenne infatti un corso di Tecniche e linguaggi pubblicitari all’Università di Urbino «Carlo Bo». L’agile libretto estratto dalle sue lezioni, intitolato Gesù, San Francesco, Totò: la nebulosa della comunicazione (edito da Angeli l’anno seguente), è in realtà sufficientemente naïf da scoraggiare chiunque voglia studiare comunicazione a livello accademico, anche se Dalla dimostra di aver ben assimilato il gergo un po’ vago che si confà al ruolo di teorico della materia. Allo stesso tempo, come spesso accade con gli artisti quando scrivono di altro, è incredibilmente utile per capire tanto le velleità quanto la profondità del suo pensiero, che si considerava un comunicatore da molto prima di entrare in un’aula universitaria.
Forte della sua spavalderia e delle sue letture di Eco e Marshall McLuhan (Dalla ha attraversato la vita culturale di Bologna tra anni Sessanta e Settanta: poteva non incontrare la semiotica?), nel libro il cantautore si inoltra senza timore reverenziale in quella che battezza un po’ enfaticamente la «nebulosa della comunicazione», scegliendosi come numi tutelari tre «grandi comunicatori» (appunto: Gesù, San Francesco e Totò). Subito critica quello che chiama «paradigma trasmissivo», ovvero l’idea che la comunicazione funzioni in un flusso di informazioni da un punto a un punto b, da individuo a individuo (o da media a massa, potremmo chiosare). Al contrario, i processi comunicativi seguirebbero un «paradigma interattivo»: il loro fulcro è sempre il destinatario e non l’emittente, perché è il primo che «“riempie” di significato» le azioni del secondo. Non è ovviamente utile discutere l’esegesi o criticare la raffinatezza del modello dalliano. È però intrigante che il sistema si basi su chi ascolta e non su chi parla. Soprattutto, è intrigante se si considera come Dalla fosse uno di quelli che «parlava», e molto, con milioni di fan pronti ad ascoltarlo e a credergli.
La parola «comunicazione» è tra le più ricorrenti nelle numerose interviste che Dalla ha rilasciato, sempre con grande generosità, lungo tutta la sua carriera (sono raccolte in E ricomincia il canto, Il Saggiatore, 2021, a cura di chi scrive). Tanto ricorrente da sembrare quasi un’ossessione: l’idea che il compito dell’artista sia soprattutto quello di farsi capire affiora spesso nelle conversazioni e negli scritti del cantautore, già negli anni Settanta.
Nel 1977 esce per l’editore Savelli, legato alla nuova sinistra, un agile libretto dedicato all’artista. Si intitola Il futuro dell’automobile, dell’anidride solforosa e di altre cose, è curato da Simone Dessì (nom de plume del sociologo Luigi Manconi) e raccoglie scritti a firma di vari intellettuali fra cui Franco «Bifo» Berardi e Dario Fo, oltre ai testi delle canzoni che Roberto Roversi aveva composto per il cantautore. Dalla è in quel momento in rotta con il poeta bolognese, che nel 1976 si era rifiutato di firmare con il suo vero nome i brani composti per il disco Automobili, per protesta contro i tagli e le censure imposti dalla Rca. Il libro è prevedibilmente imbevuto di gergo militante, in un momento in cui le letture della «cultura di massa» da sinistra faticano ancora a superare le posizioni apocalittiche di ispirazione adorniana, e in cui del cantautore si rileva soprattutto il possibile ruolo di avanguardia politica e di sovversione interna al mercato (il cosiddetto «entrismo»). Dalla, con una mossa a dir poco irrituale (e commercialmente suicida, come da tradizione dell’editoria di sinistra) firma una stroncatura del libro stesso, in forma di postfazione: «Vorrei chiarire una cosa: questo libro che parla di me, e non solo di me, non mi piace molto, non mi vede direttamente coinvolto e mi fa anche – sotto certi aspetti – paura». È l’occasione per togliersi qualche sassolino ma, al di là del tono insolitamente astioso, l’originalità del pensiero del cantautore viene fuori in tutta la sua forza, in polemica con i paradigmi che volevano la canzone d’autore necessariamente educativa e politica. Dalla rilancia con una prospettiva umanista: «Per fare canzoni amate dalla gente bisogna amare la gente, starci in mezzo, e soprattutto raccogliere dati sufficienti a riflettere e a fare l’autocritica. Quando ho avuto la sensazione di non essere stato capito ho sempre pensato di essere stato io a sbagliare. Non esiste concetto o discorso che, se portato con amore e con il desiderio di divulgarlo, non arrivi al pubblico e alle masse – che sono sempre più avanti degli intellettuali o degli artisti che dovrebbero esserne al servizio».
A ben vedere, l’intera carriera musicale di Dalla può essere efficacemente raccontata così. La costante ricerca di un destinatario conta molto di più della costruzione dell’autorevolezza dell’emittente
Ancora, il destinatario – il pubblico, «la gente» – al centro. È una poetica (un modello comunicativo, se preferite) piuttosto originale per un cantautore, per come in Italia sono sempre stati pensati i cantautori e per come erano concepiti dalla sinistra. Dalla non vede se stesso come un artista che compone le sue opere donandole ai (pochi: i grandi artisti sono sempre incompresi) fan iniziati. Non si vede come megafono di un progetto creativo o politico più grande di lui. È lui a farsi trovare, non il pubblico che deve venire a cercarlo nella sua torre d’avorio.
A ben vedere, l’intera carriera musicale di Dalla può essere efficacemente raccontata così. La costante ricerca di un destinatario conta molto di più della costruzione dell’autorevolezza dell’emittente. Alla metà degli anni Sessanta, dopo aver fatto senza grande fortuna di pubblico il jazzista, Dalla diventa musicista «beat», nel momento in cui la bussola della musica dei giovani punta in quella direzione. Nel 1971 l’Italia comincia a premiare i cantautori, e lui si rilancia a Sanremo con 4/3/1943. Negli anni del progressive rock e del boom del circuito militante legato alla sinistra mette insieme la trilogia con Roberto Roversi, infarcita di messaggi politici, arrangiamenti complessi e (meravigliose) canzoni di durata inusitata. Alla soglia degli anni ottanta, in pieno riflusso, incorpora il reggae e canta di masturbazione (Disperato erotico stomp). Alla metà del decennio scopre le drum machine della nuova techno americana (Washington). Negli anni Novanta si lancia nei tormentoni alla Attenti al lupo. Di quell’album – Cambio, il suo più grande successo di vendite – Dalla dirà in un’intervista di aver voluto fare «un disco non per me, ma per gli altri, per la gente che sta a Rimini a mezzogiorno del 15 agosto». E chioserà, un po’ sornione: «Io, però, non so se me lo comprerei».
Saper comunicare, conoscere gli strumenti della comunicazione significa però anche saper mentire – un’altra cosa che a Dalla riusciva benissimo. La lettura in sequenza delle sue interviste restituisce in effetti un caleidoscopio di aneddoti e storie bizzarre, che di racconto in racconto mutano e si incrostano di dettagli nuovi: quella volta che ha composto Caruso sul pianoforte che era stato del grande tenore, a Sorrento; quella volta in cui Berlusconi lo ha invitato ad Arcore o quella volta che lui e De Gregori hanno cenato con Berlinguer; quella volta che ha incontrato Padre Pio (molte volte, in realtà: gli aneddoti di Dalla sul santo di Pietrelcina, di cui era devoto, sono quasi un genere a sé, con davvero poca plausibilità storica); e via così. La stessa carriera di Dalla come cantautore nasce nel segno di una menzogna – o meglio, di un fraintendimento coltivato fino a renderlo vero. Nel 1971, a Sanremo, il pubblico si convince che il testo di 4/3/1943 (scritto da Paola Pallottino) parli proprio di Dalla. Che quando Dalla dice «io» si riferisca proprio a se stesso, che sia lui il bambino della canzone, lui che ancora adesso gioca a carte e beve vino e per la gente del porto si chiama «Gesubambino». Dalla, naturalmente, non fa assolutamente nulla per smentire questa credenza popolare: ha intitolato il brano come il giorno del suo compleanno, e sulla copertina del 45 giri ha messo una vecchia cartolina di Manfredonia, con una freccia a indicare la sua casa d’infanzia… Ma viene anche il dubbio che l’intera storia sia inventata: davvero il pubblico ha reagito così? O lo crediamo solo perché Dalla ce lo ha raccontato?
Dalla ha ingannato per amore dell’inganno, per raccontare al pubblico quello che il pubblico voleva sentirsi raccontare. Era un millantatore e – ancora – è un identikit che si adatta male al mito del cantautore “incorruttibile” e che “porta la verità”, per dirla con Edoardo Bennato
La menzogna, insomma, come pratica del comunicare, come motore per affascinare, per far sì che il destinatario «riempia di significato» il messaggio e immagini mondi nuovi. Dalla ha ingannato per amore dell’inganno, per raccontare al pubblico quello che il pubblico voleva sentirsi raccontare. Era un millantatore e – ancora – è un identikit che si adatta male al mito del cantautore «incorruttibile» e che «porta la verità», per dirla con Edoardo Bennato. In ogni sua azione, Dalla sembra volerci ricordare che le canzoni sono sempre e comunque una forma di fiction. Ci aprono uno spiraglio sul mondo, sui nostri sentimenti o su quelli di chi le canta; a volte ci illudono poter entrare in contatto intimo con chi le sta cantando, di poter conoscere un uomo o una donna solo per tramite di una voce registrata. Al centro del nostro rapporto con le canzoni, insomma, c’è sempre e comunque una menzogna. In fondo è questa l’essenza del pop: arrivare a tutti, piacere a tutti, dare a tutti quello che vogliono e quello che si aspettano.
Che non necessariamente è qualcosa di banale o di brutto, o di vero. Per dirla ancora con Dalla: «Si dovrebbe capire finalmente l’importanza grandissima della musica leggera. Si dovrebbe avere l’onestà di ammettere che una canzone è una buona canzone perché mi mette allegria, mi fa accarezzare la mia donna, mi fa scopare, mi fa tenere in braccio il mio bambino, mi fa venire voglia di stare assieme agli altri. Perché vogliamo chiedere di più alle canzoni?».
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