È sempre un bel nodo da sciogliere, l’allestimento di un’opera contemporanea: al vantaggio della presenza e della disponibilità dell’autore, peraltro mai scontata, si contrappone in genere la mancanza o la scarsità di una prassi esecutiva in qualche modo consolidata e rassicurante. L’approdo al Comunale di Bologna (il 14 giugno 2016) dell’opera forse più fortunata di Salvatore Sciarrino, largamente positivo, deve averlo tagliato di netto, il nodo, più che sciolto con fatica, perché alla benevola vigilanza dell’autore s’è aggiunto il contributo fondamentale di un maestro concertatore e direttore d’orchestra più che affidabile, esperto dello stile in genere e della partitura in particolare.
Veramente, se Sciarrino usa dichiarare che il suo lavoro scenico più “operistico” rimane Perseo e Andromeda, Luci mie traditrici è la sua musica teatrale più vista e ascoltata, da quel 1998 che ne assistette alla première in quel di Schwetzingen: tre le edizioni in cd, una l’edizione in dvd, nella quale ha diretto l’Ensemble Algoritmo Marco Angius, la mano e la bacchetta d’assoluta fiducia che presiedeva anche allo spettacolo bolognese.
Stupisce, non si può negare, un’apertura di sipario che sembra un mattutino quadretto goldoniano, o se si vuole anche, ma leggermente, pirandelliano (a firma di Annette Murschetz per le scene e Birgit Wentsch per i costumi): interno borghese, sedie e tavolini, quadri alle pareti, perfino una carta geografica, e quanto ai personaggi atteggiamenti e movimenti di tutti i giorni, fra l’altro con spunti e soluzioni di carattere comico, perfino farsesco (quando si gira impettiti, si inciampa, si stramazza a terra o altrove). Ma Jürgen Flimm, il regista, ha concepito lo spettacolo come un lento progress verso il dramma più nero, meno borghese e più macabro, meno verosimile e più visionario possibile. Abbastanza presto, difatti, il muro di fondo si spacca e verso sinistra compare un taglio più o meno verticale, quasi da terremoto. Quindi il buio avanza implacabile, da destra. Sempre scuri sono i tre intermezzi sinfonici, velati da un siparietto che scende e sale a dovere, mentre i personaggi non smettono un attimo di andare avanti e indietro. E verso la fine, dopo che la porticina in fondo s’è dischiusa e ha lasciato intravvedere il momento dell’adulterio e vedere nonché rivedere il momento del primo omicidio (vittima un adultero), il buio pressoché totale fa sì che il punitore, tutto nero con paurose ali da vampiro e pipistrello, per poter compiere il secondo omicidio ‒ che è poi un uxoricidio ‒ s’aggira per la stanza con una torcia, una pila, una lucetta ormai ben poco traditrice.
«Occhi miei traditori» cantava l’amante lui nel duetto, e «Luci mie traditrici» rispondeva l’amante lei: ecco un libretto quanto mai reverente verso certo passato rinascimental barocco (dello stesso musicista, è tutto scritto in sticomitìa, cioè con fittissime battute di un solo verso per ogni personaggio); e addosso una musica quando mai audace di scrittura, fra un’orchestra che è un’atmosfera di sussurri, aliti, sospiri, battiti umani e non solo, e un canto che si frammenta e ripete di continuo, roteando su sé stesso e sempre sdegnando li accenti verbali.
Grande onere per gli interpreti, tutti puntigliosi tanto a cantare quanto ad agire: bella la voce scura del baritono Otto Katzameier, ormai specialista del duca Malaspina, che prima è un gentiluomo svagato e sveniente, poi un sempre più altero e implacabile angelo o demonio della vendetta; efficace la coppietta della duchessa (il soprano Katharina Kammerlocher) e del marchese Ospite (il contralto Lena Haselmann), personcine sottili e stilizzate come marionette; divertente, infine, il Servo (il tenore Christian Oldenburg), onnipresente e cantante-attore-mimo di immediata comunicativa. Alla selezionata orchestra del Comunale (senza oboi né corni) provvedeva Marco Angius, laborioso e profondo conoscitore di una partitura che dura circa settanta minuti ma forse esige anni e anni di approccio.
Sala lodevolmente abbastanza piena: successo di stima per l’insigne compositore e di lieta sorpresa per l’uditorio grazie a un’opera nuova e complessa ma tutta capita e goduta. Perché il teatro in musica non è defunto come si sente dire anche in certe alte sfere della critica e dell’intellettualità. Fermo restando che l’opera compresa fra Gluck-Mozart e Puccini-Strauss sarà sempre la preferita, accessibile e amabile qual è nel suo grande valore d’arte e civiltà, il genere era pur nato qualche secolo prima e doveva sopravvivere a lungo, almeno fino a oggi. E se Sciarrino ha meritato l’allestimento bolognese, “operisti” come Malipiero e Ghedini, Togni e Berio, Bussotti e Guarnieri, Battistelli e Galante (per chiudere il discorso all’Italia) meritano altrettanto.
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