“Immagina una casa di ferro senza finestre praticamente indistruttibile, con tanta gente addormentata sul punto di morire asfissiata. Tu sai che la morte li coglierà nel sonno e che quindi non conosceranno le pene dell'agonia. Ora, se tu, con le tue grida, svegli quelli dal sonno più leggero e costringi questi sfortunati a soffrire il tormento di una morte inevitabile, credi di rendere loro un servigio?”.
All’inizio della raccolta nella quale compare il celebre racconto Diario di un pazzo (scritto nel 1918), Lu Xun propone un interessante dilemma etico. Lo scrittore si sta rivolgendo a un amico che vuole convincerlo a tornare alla vita attiva, dopo che Lu Xun, deluso dai tentativi infruttuosi di rinnovare la vita culturale e politica cinese, si era ritirato a copiare antiche iscrizioni. La casa di ferro rappresenta quindi l'immobilità feudale e oscurantista della Cina tradizionale, e il dubbio della vedetta racchiude lo sconforto dello scrittore riformista di fronte a una società inerte e sonnambula, che non sembra avere alcuna intenzione di cambiare.
Il giovane amico però ribatte deciso alla provocazione dello scrittore:
"Se alcuni si svegliano, non puoi più dire che non ci sia alcuna speranza di distruggere la casa di ferro". Conclude Lu Xun: "Era vero, malgrado le mie convinzioni non potevo uccidere la speranza, perché la speranza fa parte del futuro".
Ho pensato spesso a questo dilemma guardando le azioni degli attivisti del clima degli ultimi mesi e le reazioni scomposte che ne sono seguite. Siamo anche noi dentro la casa di ferro, mi sono detto, siamo anche noi addormentati e ciechi, mentre il mondo fuori brucia e l’orologio dell’umanità non è mai stato così vicino alla catastrofe.
Del resto, dovrebbe essere ormai evidente a tutti che la crisi climatica non è uno scenario ipotetico e futuro: ne siamo completamente immersi. In The climate book – il libro che Greta Thunberg ha fortemente voluto – si legge: "Più a lungo fingiamo di poter risolvere questa crisi senza trattarla come tale, più si sprecherà tempo prezioso. Più a lungo fingiamo di poterci adattare a una catastrofe interconnessa, più vite inestimabili andranno perdute. Ci sarà speranza solo se diremo la verità".
La diplomazia climatica non è stata in grado di arrivare a un consenso formale sull'eliminazione graduale delle fonti fossili e i Paesi non hanno fatto sostanzialmente nulla per garantire che i precedenti impegni assunti per raggiungere zero emissioni siano rispettati
Ma siamo sicuri di volerla sentire questa verità? Dopo il picco del 2021 – segnato dal rimbalzo post-Covid – l’anno appena concluso ha visto infrangere un nuovo record di emissioni. Il sistema politico-economico capitalista continua a spingere sull’acceleratore dei combustibili fossili, business as usual, ammantando il tutto con altisonanti quanto vuote dichiarazioni di principio. Come dimostra l’ultima Cop27 di Sharm El-Sheikh, la diplomazia climatica non è stata in grado di arrivare a un consenso formale sull'eliminazione graduale delle fonti fossili e, cosa ancora più deludente, i Paesi non hanno fatto sostanzialmente nulla per garantire che i precedenti impegni assunti per raggiungere zero emissioni siano rispettati.
Né esistono soluzioni tecnologiche miracolose, capaci di salvarci da sole, nonostante qualche miliardario sostenga il contrario. Per salvarci dobbiamo apportare cambiamenti di fondo alla nostra società, mettere in discussione equilibri e assetti che ci appaiono immutabili. E dobbiamo farlo in fretta, se vogliamo proteggere il benessere dell'umanità e l'unica civiltà di cui siamo a conoscenza nell'intero universo, la nostra.
Se tutto questo è vero, allora le azioni degli attivisti climatici dovrebbero raccogliere consenso e ammirazione, avendo lo scopo preciso di svegliare, e quindi in ultima analisi tentare di salvare, gli abitanti addormentati della casa di ferro. E invece, proteste improntate alla più netta e in fondo innocua non-violenza vengono additate da molti come terroristiche ed eversive. Come ha fatto notare Mario Ricciardi sul "Domani",
"non c'è nulla di incosciente nella scelta della modalità della protesta: pensata per ottenere visibilità, perseguita nella consapevolezza di violare la legge, attuata senza uso di violenza e accettando di subire le conseguenze legali delle proprie azioni. C'è consapevolezza, pensiero che si traduce in azione. Si è scelto un metodo che evitasse danni permanenti, ma perché il proposito non era affatto distruggere, ma costruire: attivare un processo di risveglio delle coscienze nei confronti di una minaccia esistenziale".
Eppure, bisogna riconoscere che questo risveglio non c'è stato: perché? Alle molte risposte che si possono dare a questa domanda, il dilemma di Lu Xun ci aiuta a mettere a fuoco due questioni cruciali, che fanno rima rispettivamente con le forme della protesta e con lo spazio per la speranza.
Come si abbatte una casa di ferro, una casa praticamente indistruttibile? Così indistruttibile, che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, come scrive Mark Fisher in Realismo capitalista. E se il problema fosse proprio l’inefficacia delle azioni di protesta e di disobbedienza civile fino ad ora perseguite? Se gesti simbolici e azioni pacifiche non fossero sufficienti per provare a uscire da questa fortezza soffocante? È quanto sostiene Andreas Malm, professore di Ecologia umana all’Università di Lund, nel suo Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia (trad. it. Ponte alle Grazie, 2022).
Già nel 2007, in un celebre articolo apparso sulla "London Review of Books", lo scrittore e saggista britannico John Lancaster si meravigliava della docilità dei movimenti ambientalisti contemporanei. "Fatto strano e sorprendente", scriveva all’epoca Lancaster, "gli attivisti del clima non hanno ancora commesso atti terroristici". E aggiungeva: "il fatto è tanto più notevole se si pensa quanto sia facile far esplodere una stazione di servizio, o vandalizzare un Suv".
Il libro di Malm ha dato luogo a un acceso dibattito, come sintetizza con chiarezza Alessio Giacometti sul "Tascabile". L'accusa mossa da Malm è che vi sia una forma d’inazione interna all’ambientalismo stesso, il quale predica come apocalittici i cambiamenti climatici in corso e tuttavia si limita ad azioni di protesta inoffensive. I movimenti hanno sicuramente rallentato l’azione dell’industria fossile, ma più passa il tempo senza che la curva delle emissioni si fletta e più diviene chiaro che stanno perdendo la propria battaglia per il clima.
Bisogna augurarsi che la rabbia climatica esploda presto, sostiene il filosofo svedese. Esprimere la rabbia, abbandonare la propria timidezza; l'arte da padroneggiare è quella della violenza politica controllata, attraverso azioni di sabotaggio, manomissione e anche distruzione delle infrastrutture fossili. Lo scopo è disincentivare ulteriori investimenti, dimostrare che si può mettere fuori servizio i nuovi dispositivi che emettono anidride carbonica e spingere la società verso interventi più decisi sul clima. E se guardiamo agli ultimi mesi – dalla grande mobilitazione in Germania contro la miniera di carbone a cielo aperto di Lützerath, dove anche Greta Thunberg è stata arrestata dalla polizia tedesca, alle recenti micro-azioni del collettivo delle Suv-versive a Milano – sembra che l'invito di Malm stia cominciando ad essere ascoltato.
Il movimento ecologista deve crescere politicamente per poter decidere quali siano le forme migliori di protesta e conflitto, senza nascondersi i rischi insiti alle diverse opzioni (disaffezione, spirale violenta, acuirsi della repressione)
Sono convinto che il movimento ecologista abbia bisogno di crescere politicamente per poter decidere quali siano le forme migliori di protesta e conflitto, senza nascondersi i rischi insiti alle diverse opzioni (disaffezione, spirale violenta, acuirsi della repressione); ma al contempo i partiti di sinistra dovrebbero offrire al più presto una sponda al movimento. Perché se fino ad ora, nonostante l’evidenza del problema, la mobilitazione globale di centinaia di migliaia di giovani non è riuscita ad avere alcuna incidenza sulle politiche economiche, il risultato non sarà solo il collasso sociale e ambientale prossimo venturo. Ma anche la perdita di una nuova generazione di attivisti, come è successo a molti di noi quarantenni: cresciuti nell'impegno sociale e culturale degli anni Novanta e Duemila, ci siamo scontrati con la chiusura nei partiti politici di spazi di reale partecipazione e incidenza. Per ora gli attivisti per il clima hanno capito che per rompere il velo della invisibilità è meglio usare altri mezzi rispetto alla mobilitazione politica: come la famosa zuppa sul vetro, che tanta indignazione ha sollevato. Ma anche questo ciclo potrebbe esaurirsi in fretta, soprattutto se la risposta del sistema istituzionale sarà di chiusura e repressione, come sembra stia già avvenendo in Italia.
Se la radicalizzazione delle proteste in questo momento è ancora una questione di scelta e opportunità, giusta o sbagliata che sia, è probabile che nel prossimo futuro – con l'acuirsi degli effetti distruttivi della crisi climatica e l'allargarsi delle disuguaglianze che ne sono l'origine e il moltiplicatore (già ora i super-ricchi, che rappresentano appena l’1% della popolazione globale, con il loro stile di vita lussuoso producono due volte il carbonio emesso complessivamente dalla metà più povera e senza potere del genere umano) – questa radicalizzazione sarà inevitabile.
Venivamo alla seconda parola: speranza. Gli effetti del cambiamento climatico e dell’inquinamento sono altamente distruttivi per la maggior parte degli organismi che popolano la Terra (estinzioni, crollo della biodiversità, degradazione della biosfera e dei cicli naturali) e lo sono, in egual misura, per le società umane (compromettendo la sopravvivenza stessa della nostra specie e innescando nuove crisi umanitarie). Abbiamo tutti i giorni nuove conferme che tutto ciò sta avvenendo a una velocità maggiore di quanto previsto, perché l'aumento delle temperature in corso si riverbera nel sistema climatico innescando reazioni a catena, che a loro volta rafforzano il processo di surriscaldamento.
Quale spazio di speranza rimane in questo quadro? Possiamo continuare a dire, con Lu Xun, che non si può uccidere la speranza perché appartiene al futuro? E se invece la verità fosse che la battaglia per il clima è ormai una lotta senza speranza?
Personalmente non credo che lo sia, e non è solo l’ottimismo della volontà a suggerirmelo, ma la voce di molti scienziati in prima linea nell’attivismo climatico. È ancora Greta Thunberg in The climate book a scrivere che
"al momento, abbiamo un disperato bisogno di speranza. Ma la speranza non consiste nel fingere che andrà tutto bene. Per me, la speranza non è qualcosa che ti viene dato, è qualcosa che ci si deve guadagnare, creare. Non si può ottenere passivamente, stando fermi ad aspettare che qualcun altro faccia qualcosa. La speranza è agire. È uscire dalla propria comfort zone. E se un gruppetto di studenti strambi è riuscito a far sì che milioni di persone iniziassero a cambiare la loro vita, immaginate cosa potremmo fare tutti insieme se solo ci provassimo davvero".
Se anche avessero ragione i fatalisti climatici – coloro che sostengono che non c'è più nulla da fare – noi da che parte vogliamo farci trovare dal tribunale della storia?
Ma poi, se anche avessero ragione quelli che Malm chiama i fatalisti climatici – coloro che sostengono che non c'è più nulla da fare – noi da che parte vogliamo farci trovare dal tribunale della storia? Dalla parte di quelli che sono rimasti indifferenti e anzi hanno continuato testardamente a fare la vita che hanno sempre fatto scendendo giù nella fornace climatica, ciechi e sordi alle sofferenze dei loro simili e del mondo, o dalla parte di coloro che hanno tentato di proteggere, su un pianeta deturpato, quanto più spazio possibile perché la vita, umana e no, possa durare ancora, magari prosperare e, nei migliori dei casi, guarire alcune delle ferite inferte negli ultimi secoli?
È ancora una volta al linguaggio archetipo delle fiabe che dobbiamo rivolgerci in conclusione. Lo faccio con le parole del grande scrittore nigeriano Chinua Achebe, che rappresentava così – nel romanzo Viandanti della storia (trad. it. Edizioni Lavoro, 1991) – l’urgenza di testimoniare sempre un segno di resistenza e di lotta di fronte a cause giuste, vitali e improcrastinabili, che vanno perseguite anche a prescindere da immediate considerazioni di opportunità e successo.
C'era una volta un leopardo che da tempo cercava di catturare una tartaruga; una volta, per caso, s'imbatté nella tartaruga su una strada solitaria. "Aha, disse, finalmente! Preparati a morire". E la tartaruga disse: "Posso chiedere un favore prima di morire?". Il leopardo non vide nulla di male nella richiesta, e disse di sì. "Dammi qualche minuto per preparare il mio animo", disse la tartaruga. Di nuovo il leopardo non vide nulla di male nella richiesta, e l'accolse. Ma invece di restare immobile come il leopardo si aspettava, la tartaruga cominciò a fare strani movimenti frenetici sulla strada, grattando con le mani e con i piedi e gettando furiosamente sabbia in tutte le direzioni. "Perché fai così?", chiese il leopardo, perplesso. La tartaruga rispose: "Perché quando sarò morta vorrei che tutti quelli che passano di qui dicessero: sì, qui qualcuno ha lottato contro un suo pari".
Ecco, questo è quanto stiamo facendo noi. Stiamo lottando. Forse per nessuno altro fine se non che quanti verranno dopo di noi possano dire: "È vero i nostri padri furono sconfitti, ma almeno ci provarono!".
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