Lorenzo Parelli aveva 18 anni e frequentava un Centro di formazione professionale regionale. È morto mentre svolgeva uno stage necessario per ottenere una qualifica che lo avrebbe introdotto direttamente al mondo del lavoro. Meno di un mese dopo anche Giuseppe Lenoci, 16 anni, è morto in un incidente stradale mentre svolgeva uno stage all’interno di un corso di formazione professionale di termoidraulica.
I due studenti non erano all’interno dell’alternanza scuola-lavoro, oggi chiamata Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento nella scuola statale). Questo non cambia niente e non assolve nessuno, ma è necessario premetterlo per comprendere quale sia il mondo della scuola in cui erano immersi e quali le connessioni con la protesta studentesca che si è nel frattempo innescata in tutta Italia. I movimenti studenteschi si sono mobilitati criticando la gestione della scuola durante la pandemia, l’inadeguatezza di molti edifici scolastici, la mancanza di spazi di democrazia e di partecipazione degli studenti alla vita scolastica e in opposizione a quel processo di aziendalizzazione della scuola ormai esplicito che ha ridotto l’educazione e l’istruzione a una sommatoria di competenze – da acquisire, valutare, certificare – fra le quali spicca l’imprenditorialità.
Nel 2018 il Miur ha diffuso un sillabo per l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole elaborato da un gruppo di portatori di interesse fra i quali figurano l’Associazione Docenti e dirigenti scolastici, Ubi banca (impresa fallita), Microsoft e un largo numero di imprese che promuovono start up basate sull’innovazione tecnologica e digitale. A questo sillabo sono stati poi collegati finanziamenti alle scuole provenienti dai fondi strutturali europei finalizzati allo sviluppo di progetti incentrati su questo tema a partire dal primo ciclo, quindi dalla scuola elementare. Con un linguaggio tecno-burocratico mutuato dal mondo economico, l’intera vita di un essere umano viene ricondotta nell’alveo di un'attività di impresa. Da questo tipo di documenti emerge la decisa curvatura che l’ideologia liberista europea sta imprimendo da tempo a una scuola pensata da enti economici, aziende, fondazioni bancarie. L’alternanza scuola-lavoro rientra pienamente all’interno di questa logica aziendalista e per questo è fortemente criticata dai movimenti studenteschi.
La morte dei due ragazzi chiama in causa diversi aspetti del rapporto tra scuola e lavoro, innanzitutto, ma non solo, le logiche aziendaliste sottese all'alternanza scuola-lavoro
Le due morti però chiamano in causa anche altri aspetti del rapporto tra scuola e lavoro che si riescono a chiarire analizzando i contesti in cui questo rapporto avviene (che ho più ampiamente discusso qui). L’istruzione professionale in Italia è divisa tra un’istruzione professionale di competenza statale, assolta all’interno di istituti professionali statali che rilasciano diplomi quinquennali classici, e una formazione professionale di competenza delle Regioni, assolta dai diversi enti di formazione professionale privati presenti in Italia, i quali possono essere di natura confessionale, sindacale costituiti da associazioni di categoria e accreditati localmente. Questi enti organizzano corsi nei quali è possibile assolvere l’obbligo scolastico acquisendo una qualifica di tipo triennale. Spesso questa qualifica non ha una reale corrispondenza in termini retributivi nel mondo del lavoro italiano, poiché il titolo non garantisce un inquadramento lavorativo chiaro e i giovani, dopo questi percorsi, entrano ancora nel mondo del lavoro come tirocinanti o apprendisti, prolungando di fatto di diversi anni la loro precarietà.
Gli enti di formazione professionale regionali privati sono una realtà estremamente disomogenea se osservata a livello nazionale, così come lo sono i mondi produttivi locali a cui essi si rivolgono per gli stage. In territori segnati da un mondo del lavoro caratterizzato da irregolarità, lavoro nero, condotte antisindacali, caporalato e dove scarsi sono i controlli, lo stage può essere un'esperienza per nulla formativa e molto vicina allo sfruttamento, oltre che pericolosa per i ragazzi: le circa 400 ore annuali che uno studente svolge di stage sono infatti su quei luoghi di lavoro dove sono morte oltre 3 persone al giorno nel 2021.
Nella scuola statale il rapporto fra scuola e lavoro si dà sostanzialmente nei Pcto, che hanno una durata molto più contenuta rispetto agli stage. Le scuole possono declinare i Pcto proponendo agli studenti attività molto diverse tra loro: da esperienze nel sindacato o in aziende fino a corsi di marketing e imprenditorialità, ma anche laboratori con associazioni culturali o di volontariato e percorsi in musei o biblioteche. Molto dipende dalle scuole e dalle decisioni dei collegi dei docenti e dall’orientamento più o meno piegato alla cultura del management di ciascun dirigente scolastico.
È per questo che la democrazia e spazi di discussione su che cosa debba fare e a che cosa debba tendere la scuola sono fondamentali, e sarebbe fondamentale che a questa discussione partecipassero anche gli studenti e tutta quella comunità di persone (educatori, insegnanti, famiglie) che dovrebbe essere la sola portatrice di interessi consultata dal Miur in merito alle politiche dell’istruzione.
I ragazzi che come Lorenzo e Giuseppe scelgono i percorsi di formazione professionale triennali per più della metà sono maschi fuoriusciti dai percorsi di istruzione tradizionali
I ragazzi che come Lorenzo e Giuseppe scelgono i percorsi di formazione professionale triennali hanno profili diversi dagli studenti delle scuole statali: più della metà sono fuoriusciti dai percorsi di istruzione tradizionali, espulsi dalla scuola attraverso bocciature e insuccessi scolastici; più della metà sono maschi mentre le femmine si concentrano nei percorsi professionalizzanti molto connotati dal lavoro femminile, quali ad esempio quella di operatore alle cure estetiche. Al Nord alta è la quota dei figli dell’immigrazione.
Questi ragazzi con il lavoro hanno un rapporto diverso da quello che hanno gli studenti dei licei che spesso animano i movimenti: nel lavoro non cercano un’occasione per realizzarsi ma soprattutto sostentamento materiale, dignità, un’alternativa alla precarietà del lavoro nero o dequalificato vissuto dai loro genitori. Della scuola statale delle competenze, dell’imprenditorialità e del capitale umano questi studenti sono gli scarti, e ne hanno già pagato gli esiti in termini di selezione di classe. Hanno poco a che fare con le mobilitazioni studentesche, sono già proiettati in una vita da adulti, non potranno dilatare la loro giovinezza allungando il percorso formativo nell’università: diventeranno subito a 18 anni lavoratori, precari o disoccupati. I loro luoghi di lavoro saranno quelli più pericolosi, come i cantieri, le fabbriche meccaniche, le cucine, i magazzini della logistica. Chi parla di una scuola che deve formare alla cittadinanza e trasmettere cultura spesso dimentica che gli studenti non sono tutti uguali e che ognuna di queste parole si declina in modo diverso a seconda della classe sociale degli studenti.
I discorsi che parlano di una scuola che deve rimanere separata dal lavoro sono permeati da una cultura umanistica che riconosce la cultura nella letteratura, nell’arte, nelle scienze ma fatica a riconoscere il contributo che le culture tecniche e professionali di contadini, operai e artigiani hanno dato a un’idea di lavoro che sia operosità, collettività, cooperazione e diritti dei lavoratori-cittadini. Ed è anche attraverso questo disconoscimento che il lavoro a scuola oggi diventa cultura d’impresa, perché è un lavoro visto dall’alto di chi organizza e domina i processi economici, non di chi nel tentativo di superare quotidianamente l’alienazione, costruisce il mondo e il vivere sociale non per come esso è ma per come dovrebbe essere dentro e fuori i luoghi di lavoro: una vita a misura dell’essere umano, dell’ambiente, della comunità. I movimenti studenteschi hanno ragione a opporsi con rabbia all’aziendalizzazione della scuola ma le pedagogie attive novecentesche di Freinet, Dewey, Pestalozzi, di Goodman e Kropotkin possono forse guidarci verso una scuola capace di distinguere il lavoro vivo dal lavoro alienato e sfruttato e a ricomporre senza gerarchie lavoro intellettuale e lavoro manuale nella formazione. Su questo piano si misura però anche la differenza fra una scuola pubblica governata da interessi privati e una scuola che fa gli interessi pubblici, in altre parole democratica e non affidata alla mano invisibile del mercato europeo.
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