In anni recenti si è assistito a una vera e propria Lonzi-Renaissance, cui hanno contribuito sia le ricerche sull’attività di Lonzi come storica e critica d’arte, sia gli studi sul femminismo della differenza, di cui Lonzi è stata tra le fondatrici. La ripubblicazione di tutti i suoi scritti, a cura di Annarosa Buttarelli per le edizioni della Tartaruga, cade dunque opportuna, e potrà favorire la nascita di nuovi cantieri storiografici.

Nel dicembre 1963, sul quotidiano «Avanti!», Lonzi polemizza duramente con Argan, allora titolare della cattedra di storia dell’arte contemporanea dell’Università della Sapienza, erede di Lionello Venturi e giunto all’apice della fama per la sua competenza disciplinare, l’impegno civile e la vastità di studi sull’arte contemporanea. Pressoché nessuno, al tempo, prestò attenzione agli argomenti della giovane critica: nessuno tranne alcuni tra gli artisti che più si sarebbero distinti nei decenni a venire in seno all’Arte povera. Tuttavia è nella polemica contro Argan, a mio avviso, che possiamo rintracciare alcuni spunti durevoli del pensiero di Lonzi – in primo luogo la convinzione che la società «culturale» (non importa se artistica, letteraria, filosofica ecc.) sia (o fosse) eccessivamente chiusa e omogenea, accessibile solo a un ristretto numero di seniores di sesso maschile.

Critica d’arte e femminismo. Le donne, i giovani, gli artisti: sono questi i «soggetti imprevisti» che si annunciano già nei primi scritti di Lonzi, la cui importanza, per la genesi del pensiero della differenza, è passata inosservata forse per la grande notorietà degli scritti posteriori. Circostanze biografiche vengono qui in primo piano. Quanto è rilevante, ad esempio, per Lonzi giovane, sperimentare insuperabili difficoltà nell’accesso alla carriera accademica, cui pure guarda con speranza per non pochi anni; o verificare che tale accesso, se non precluso alle donne, è concesso solo a talune che meglio di altre si prestino a interpretare il ruolo dell’ancella devota, e non minaccino così l’autorevolezza del patriarca? La polemica del 1963 contro Argan, in cui pure troviamo germi di un discorso femminista, non è forse rivolta anche contro altri, persino più illustri e carismatici, in primo luogo Longhi, cui un’amica e collega di Lonzi, Marisa Volpi, ha dedicato retrospettivamente una distruttiva memoria in chiave di gender? Si può essere certi che lo studio delle lettere di Lonzi, avviato solo in piccolissima parte, svelerà molti degli arcani di una formazione intellettuale tanto complessa quanto singolare, restituendo circostanze concrete, schermaglie e letture (la biblioteca di Lonzi, giovanile e non, resta ancora oggi insufficientemente indagata).

Si può essere certi che lo studio delle lettere di Lonzi, avviato solo in piccolissima parte, svelerà molti degli arcani di una formazione intellettuale tanto complessa quanto singolare

«Vorrei suggerire di alimentare [una] particolarità che sfiora il mito», consiglia Buttarelli in Carla Lonzi (Feltrinelli, 2024); dove invita gli entusiasti di Lonzi a perfezionare «un racconto in cui abbond[i]no particolari, dettagli anche forniti dall’ammirazione e dall’immaginazione». Personalmente ritengo utile muoversi diversamente, a distanza dal «mito» di Lonzi e dai territori di una leggenda aurea: persuaso come sono che l’eredità di Lonzi, non importa se nell’ambito della critica d’arte o del femminismo della differenza, possa apparire tanto più rilevante oggi, e altresì perfezionabile, quanto meno si omettano domande semplici e fondamentali attorno al suo pensiero.

In primo luogo le fonti o l’«origine», appunto. Da tempo singoli interpreti si sono interrogati sui rapporti tra critica d’arte e femminismo in Lonzi, e sulle vie della sua «riscoperta» di talune mistiche cristiane della prima modernità. Attraverso l’esperienza femminile del chiostro, infatti, Lonzi rivendica forme di costruzione del sé che non prevedono mobilitazione o denuncia – non prevedono, cioè, ciò che oggi chiamiamo attivismo sociale, politico ecc. –; ma silenzio, ricerca e scrittura diaristica. Un punto dirimente: perché nel far propri, reinterpretando e modificando, determinati modelli di costruzione del femminile inscritti nella storia della Chiesa, Lonzi si distacca dal femminismo politico di tradizione angloamericana. Non si tratta, per lei, di sostituire il matriarcato al patriarcato, né di competere per il potere come tale, ma di estinguerne il culto.

Evidente che talune posizioni di Lonzi, che oggi le vengono rimproverate come elitarie o spiritualistiche, istituiscono un dialogo a distanza, se non con Elemire Zolla, certo con Cristina Campo. Sappiamo troppo poco della cerchia che, nella Firenze di metà anni Cinquanta, ruota attorno a Anna Banti, scrittrice, moglie di Longhi – sia Lonzi che Campo ne fanno parte – e alla rivista «Paragone Letteratura». Tuttavia è evidente che proprio in tale cerchia nascono prospettive inedite e interessi per forme rinnovate, extraconfessionali, di ascesi, santità, cura del sé. Possiamo muovere a ritroso nella biografia di Lonzi e scrutarne meglio il «primo tempo» fiorentino: osservando ad esempio che l’esperienza del convento, in cui Lonzi stessa, poco più che bambina, sceglie di trascorrere alcuni anni (nel Convento di Badia a Ripoli, dal 1940 al 1943), sembra aver precocemente confermato in lei un orientamento per così dire «impolitico» in merito alla trasformazione del sé o della società. A tale orientamento Lonzi rimane fedele nei decenni della maturità, quando manifesta la più smagliante indifferenza, al pari di Breton o Weil, che certo conosce, nei confronti di ideologie e partiti.

Restiamo a Firenze: per cogliere nel sodalizio che lega la giovane Lonzi a Ottone Rosai, attestato da alcuni brevi scritti, l’occasione di un passaggio di esperienze. Artista e ideologo negli anni Venti e Trenta, Rosai si è da tempo distaccato dal fascismo di sinistra quando incontra Lonzi, e ha maturato una sua particolare conversione al cattolicesimo della rivista «Frontespizio». Proprio qui, sulle pagine di «Frontespizio» e nelle iniziative editoriali correlate, non di rado avviate dall’inestimabile don Giuseppe De Luca, possiamo cercare i primi nutrimenti del pensiero di Lonzi, in particolare una religiosità severa e autoriflessiva, laica sì, ma scevra di anticlericalismo volgare, orientata in senso civile e sociale; e, più in dettaglio, l’attenzione per Teresa di Lisieux, santa che Lonzi elegge a mentore per il suo insegnamento sulla «piccola via» (la circostanza è paradossale: per la copertina di Autoritratto, 1969, Lonzi sceglie dapprima una fotografia di santa Teresa di Lisieux nelle vesti di Giovanna d’Arco. L’editore, De Donato di Bari, ingraiano, rifiuta senza esitazione. Si conviene allora di ripiegare su un Taglio di Fontana. Lonzi ricorda il proprio sconcerto in Taci anzi parla: c’è da dire però che l’opposizione di De Donato è al tempo tutt’altro che imprevedibile. La riedizione La Tartaruga di Autoritratto restituisce oggi a Teresa di Lisieux l’onore della copertina).

L’abbandono del ruolo di critica d’arte resta a mio avviso incompreso nelle motivazioni concrete, nelle premesse storiche e nelle implicazioni di medio periodo. Esistono circostanze precise che spingono Lonzi a muovere oltre: proviamo a passarle in rassegna. I rapporti di Lonzi con artisti della stessa o precedente generazione sono noti – Fontana e Consagra, Nigro e Turcato, Pascali e Kounellis, Paolini e Fabro –, così come la delusione che tali rapporti suscitano in lei. Ci imbattiamo qui, dal suo punto di vista, in un mancato riconoscimento: se Lonzi è pronta a spendersi in favore dell’attività degli artisti suoi amici, questi non danno prova della stessa attenzione al lavoro della critica, cui, chi più, chi meno, guardano come a un’ancella per così dire attratta in via ineluttabile, niente di più. Non riconoscono cioè in Lonzi un’artista o una «coscienza» loro pari, proprio quell’artista che Lonzi ritiene di essere. Lonzi interpreta il mancato riconoscimento in chiave sessuale o di gender: è l’artista-uomo, per lei, che nega riconoscimento alla critica-donna. Sempre lo ha fatto e sempre lo farà.

L’abbandono del ruolo di critica d’arte resta incompreso nelle motivazioni concrete, nelle premesse storiche e nelle implicazioni di medio periodo. Eppure esistono circostanze precise che spingono Lonzi a muovere oltre

Questa sua interpretazione, singolarmente sovrastorica, è ancora convincente? Mi pare che possa esserlo se riferita al passato. Non lo è invece con riferimento ai decenni più recenti. In ambiti artistici stricto sensu contemporanei il potere appare oggi redistribuito secondo linee (etniche) sessuali o di gender. Non risulta però estinto al contrario (lo ha notato tra le prime, circa due decenni fa, bell hooks; in seguito Anna Bravo). Forse faremmo meglio, istruiti dalla storia recente, a procedere a una severa revisione: Lonzi interpreta i rapporti di dominio in chiave unilateralmente sessuale (e non, poniamo, sociale, economica ecc.).

Infine. Lonzi sembra spesso nascondere le proprie fonti, né le mancano giustificazioni pratiche per farlo. Da Longhi a Proust, Arcangeli e Pasolini, da Adorno e Marcuse a Sartre e de Beauvoir, da Ruth Benedict a Margaret Mead, interessate a temi per così dire di etnografia della società culturale: sono troppi i nomi che non compaiono nei testi editi in vita o emergono solo sporadicamente, e invece popolano le lettere. Che ne è qui, sotto tale profilo, dell’«assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile»? Il disegno lonziano di tabula rasa, lo si è già accennato, è comprensibile da punti di vista politici per consolidare i rudimenti del discorso femminista evitando di riconoscere interlocutori maschili. Comporta tuttavia omissioni e distorsioni gravi se considerato da punti di vista storiografici o di trasmissione culturale transgenerazionale. Restaura soprattutto un vistoso principio di autorità nei territori della «sorellanza», dove tale principio non dovrebbe sussistere. Non è improbabile che tra i «momenti celebrativi della manifestazione creativa», ancorché femminile, debba essere inclusa anche una determinata autoreferenzialità lonziana.

Un silenzio eloquente. L’approccio mitico o «extrastorico» a Lonzi rischia oggi di riportare indietro nel tempo, alla stagione eroica del primo femminismo e degli scritti di Rivolta femminile, e di rimuovere de facto almeno due decenni di ricerca storiografica dedicati a Lonzi. Che è stata considerata di volta in volta, da studiosi di generazione più giovane, in rapporto ai viaggi di formazione e agli studi storico-artistici compiuti tra Firenze e Parigi; agli artisti con cui Lonzi si è legata in sodalizio; alle tecniche di indagine adottate in Autoritratto (l’intervista, la registrazione, il montaggio ecc.); al rigetto della critica d’arte; o, infine, alla stagione tarda e ultima, post-femminista, segnata dal distacco dalle compagne di mobilitazione. Spicca qui la rottura con Carla Accardi: oggi celebrata, del tutto a sproposito, proprio all’insegna di quel femminismo lonziano della differenza che, a detta di Lonzi, Accardi non solo non ha accolto o compreso, ma ha tradito cercando consenso (semplifico) nei territori dell’opinione maschile (artisti, critici d’arte, curatori di sesso maschile).

È stato per lo più comodo, non c’è dubbio, fraintendere il silenzio di Lonzi post- Autoritratto (mi riferisco qui al silenzio di Lonzi come critica d’arte); o fingere di ignorare quanto, in quel silenzio, era comunque destinato a rimanere eloquente – appunto la disistima non riguardo a questo o quell’artista o critico o curatore, ma riguardo a una determinata ossequiosità e conformismo che modella sin troppo, per Lonzi, i costumi delle cerchie artistiche e culturali, accademiche e non. In un breve testo, pubblicato nel catalogo della mostra Identité italienne, curata da Celant e tenutasi a Parigi, al Centre Pompidou, nel 1981, Lonzi rompe per una volta il silenzio. Torna a prendere la parola per stabilire la più grande distanza tra lei e i tanti che sono giunti dopo di lei, e magari attraverso di lei, alla notorietà. Il testo di Lonzi non è qui una patetica lamentatio né un semplice attacco a Celant – anche se indubbiamente è un attacco a Celant. È piuttosto una mozione: Lonzi vi segnala l’urgenza di un rinnovamento storiografico che sgomberi il campo, nell’ambito degli studi storico-artistici contemporanei, da approssimazione, menzogna, strumentalità. Vaste programme: che attende ancora oggi di essere compiuto per via scientifica, mentre fallisce se atteso in termini di agiografia.