Le recenti vicende giudiziarie hanno riportato di nuovo in primo piano la questione del lobbismo. Non sono mancate di nuovo le riflessioni politicamente corrette sulla necessità di regolamentare il lobbismo, sulla distinzione fra un lobbismo buono ed uno cattivo. E via dicendo. Non molte le riflessioni che prendono il toro per le corna, vale a dire che trattano dell’inevitabile rapporto fra decisione politica e politica degli interessi.
La cosa dovrebbe apparire strana dopo che qualche decennio or sono era stata molto di modo la discussione sulla società “corporata”. Si partiva da una constatazione banale, tuttora assolutamente valida, e che cioè viviamo in sistemi in cui pullulano gli interessi organizzati, ciascuno dei quali fa a gara a pretendere di essere preso in considerazione ogni volta che il potere politico sia chiamato a prendere una decisione che li coinvolge. Impossibile tornare indietro, ma difficile anche stabilire i confini entro cui una realtà divenuta norma diffusa deve esser contenuta per evitare che si trasformi in un esercizio di pressioni corruttrici.
Il fatto è che la legge da sola è piuttosto inadeguata a venire a capo del fenomeno. La recente normativa sul “traffico di influenze” è giudicata ambigua dai tecnici del diritto e lo si può ben capire. Il richiamarsi alla “posizione” di qualcuno per ottenere ascolto presso qualcun altro è un fenomeno vecchio come il mondo.
Si potrebbe aggiungere, più in generale, che l’interazione nella progettazione legislativa fra i rappresentanti politici destinati ad agire nei consessi dove si decide (che non è solo quello parlamentare) e coloro che saranno poi i destinatari delle prescrizioni è una dinamica continuamente richiamata. I magistrati vogliono dire la loro quando si legifera di giustizia, professori, studenti e magari genitori quando lo si fa per la scuola; per non dire di artigiani, industriali, chiese, cooperative, banchieri, giornalisti e avanti in un elenco che è quasi infinito. Ovviamente anche in questi casi ci sono “influenze” e scambi politici, ma si dà per scontato che sia una dialettica normale, partendo dal presupposto che queste agenzie che rappresentano gli interessi non abbiano l’obiettivo di tutelare quelli di singoli individui, ma interessi generali di ceto.
Il presupposto potrebbe essere messo opportunamente in discussione quanto più i “ceti” si restringono e la tutela “erga omnes” è più un auspicio che una realtà, ma facciamo finta che sia davvero così. Diverso è allora il caso di chi lavora non per la causa di una collettività, ma per quella di un gruppo limitato o addirittura di un individuo. Giustamente in questo caso ci si preoccupa, perché l’intervento non origina dalla promozione di un interesse allargato e magari potenzialmente generale, ma da quella di un soggetto che vuole procurarsi un vantaggio diretto solo a lui.
In questo caso si può ancora parlare di lobbismo o non sarebbe piuttosto il caso di usare il vecchio vocabolo, assai più evocativo, di “intrallazzo”? E chi può tenere lontano l’intrallazzo dalla sfera politica se non l’etica pubblica e una opportuna educazione ad essa della classe politica?
La persecuzione dei reati che gli “intrallazzi” possono produrre è ovviamente doverosa, ma inevitabilmente tardiva perché, se non vogliamo cadere in un giustizialismo assurdo, si deve attendere che l’intrallazzo abbia prodotto un reato contestabile nelle aule giudiziarie, cioè quando il danno è stato fatto. Inoltre questa impostazione lascia sempre la porta aperta alla speranza che si riesca ad intrallazzare senza cadere nelle maglie della giustizia, o che, se proprio ci si finisce, un sistema affetto da lungaggini e quant’altro non si riesca a sanzionare il comportamento illecito.
Per paradossale che possa sembrare è la politica stessa, sostenuta da una riflessione raziocinante della società civile, a dover produrre meccanismi innanzitutto di prevenzione dal contagio dell’intrallazzo. Comportamenti che possono essere senza problema per una persona normale possono rivelarsi inopportuni se non addirittura a rischio per chi presta servizio in ambito politico e per funzionari che vi collaborano. Bisogna che esistano “filtri” a tutela di chi ricopre cariche delicate (per esempio procedure di decisioni condivise) anche se si deve evitare che ciò produca inefficienza sul piano decisionale.
Una riflessione su questo delicato contesto va promossa, perché è solo da questa che può nascere un impegno a restaurare un sistema in cui le deviazioni (che sono inevitabili) siano realmente una quota limitata e in cui la prevenzione dei rischi sia a carico di un sistema sociale capace di fare rete a tutela. Affidarsi ai giudici non risolve un problema di questa complessità, così come sperare di arginarlo con una mobilitazione di tipo populista può servire solo ad armare un po’ di demagoghi.
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