Per i trentenni di Bologna “Lo Stato Sociale” non è una novità sanremese, ma una realtà del quotidiano: una creatura nata e cresciuta insieme a noi, tra il liceo e l’università, tra le feste delle scuole, le sale prova e i famigerati “centri sociali” che oggi piacciono tanto a Matteo Salvini.
Il primo ricordo che ho del coetaneo e concittadino Lodovico Guenzi, la persona senza la quale il “collettivo” non sarebbe nato, risale all’estate del 2005. Immaginate una festa delle scuole allestita dentro ai giardini Margherita. Nell’attesa che toccasse alla mia band, scrutavo con trepidazione il palco per figurarmi il livello medio della serata: solo e sudato sotto un sole ancora alto un “Guenzi” apparentemente senza pudori schitarrava un recitato di parole random con la sicurezza di chi non ha ancora vent’anni ma sa già di essere un cantautore. Ricordo il contrasto tra la sua mimica travolgente e la silenziosa ricezione dello sparuto pubblico, ricordo un ragazzo di fianco a me, seduto sul cannone della sua bici. “Come riesce a farlo?”, gli chiesi. Di qualche mese più saggio, lo sconosciuto rispose: “Riesce perché è convinto”. Quattro anni dopo la mia batteria giaceva in cantina, e a Bologna nasceva, “per amicizia e per divertirsi”, ma soprattutto per convinzione e volontà di successo, “Lo Stato Sociale”. Sei anni dopo, Carota, talentuosa voce della mia disciolta ska-band, si univa al “collettivo”. Tredici anni dopo, eccomi ammogliato sul divano insieme al “Paese reale”, a televotare per il mio amico musicista e per Lodo, di cui sono finalmente in grado di comprendere il talento.
Il fenomeno Stato Sociale va compreso e dibattuto per quello che innanzitutto è: una straordinaria operazione di consenso giovanile nell’era dei social media
Non come gruppo musicale, non come messaggio politico. Il fenomeno Stato Sociale va compreso e dibattuto per quello che innanzitutto è: una straordinaria operazione di consenso giovanile nell’era dei social media. La credibilità del prodotto si fonda sull’autentica amicizia tra “regaz” che si divertono a passare la giovinezza insieme (qui da noi si dice “a fare balotta”); al contempo però il progetto è maturo, portato avanti con la continuità, l’abnegazione e la consapevolezza dei migliori manager d’azienda. Evolutisi nel solco di una scena indie sempre più concorrenziale, le melodie, i testi, i percorsi e la presenza web de Lo Stato Sociale sono guidati dall’unica strategia veramente politica che da sempre ne caratterizza il progetto: l’aumento esponenziale della propria fetta di pubblico (verrebbe da dire “dei propri elettori”). Un’operazione pigliatutto, quella da Piazza Maggiore ai media nazionali via “popolo della Rete”, che negli stessi anni è riuscita, con lo stesso tragitto, anche a un comico di Genova. Un’operazione culturale, quella dello svuotamento semantico delle parole della sinistra novecentesca, che prima di Internet era stata sdoganata da un “Presidente operaio”. Insomma, un progetto pienamente italiano e pienamente contemporaneo, che dopo migliaia di post e centinaia di live in giro per la Penisola è giunto con pieno merito sul palco dell’Ariston.
Lo strepitoso attore al centro di questo successo – Lodo stesso dichiara ogni volta che può non essere un cantante, ma di saperne recitare la parte – è, come me e come tanti altri amici, un bambino degli anni Novanta nato e cresciuto nella rossa e borghese Bologna: una città anziana e ricca, che in zona universitaria conserva i miti politici e le atmosfere dei conflitti di fine anni Settanta. La “fantasia al potere” con cui il “collettivo” impreziosisce i suoi testi a sfondo politico sono un confuso ma sapiente collage di tutti i cocci simbolici lasciati dalla fine degli anni di piombo, della Guerra Fredda e delle contrapposizioni ideologiche del Secolo breve, macerie su cui in Italia si sono sovrapposti il berlusconismo, la diffusione di Internet, la crisi economica e le paure derivanti dalla rivoluzione tecnologica – problemi che al termine dei concerti Lodo risolve nell’urlo “Io odio il capitalismo” (nel mentre il suo corpo viene in genere seppellito da una tormenta di coriandoli, palloncini e luci).
Se questo è il contesto, il programma politico che ha conquistato le nuove generazioni ben rappresentate dalle matricole dell’Unibo è: rimaniamo giovani. Per sempre. Come un’ottantenne che balla. Come un bambino dello Zecchino d’Oro. La vita può essere un’infinita gita scolastica, lontano da questi tempi infami, da questo “sistema perverso” che vuole costringerci all’età adulta e alle inique fatiche del lavoro, che “ci sgonfia i palloni”. Cito dalla seconda “pagina di diario” scritta da Sanremo per “la Repubblica”:
"Se dobbiamo immaginarci la felicità noi ce la immaginiamo così: hai sedici anni, stai per andare a dormire e domani si parte per la gita. E a sedici anni ancora non ti porti sul corpo e più dentro le ferite del sistema orrendo in cui viviamo. O ancora non del tutto. E forse è per questo che ieri non abbiamo avuto paura a entrare in scena. Perché in quell’istante di attesa prima di essere sparati nelle retine e nelle orecchie del Paese Reale abbiamo pensato che anche quei corpi hanno avuto sedici anni e sono stati in gita. Allora l’idea è stata solo di andare lì e ricordarglielo, al Paese Reale, che prima, quando i corpi erano giovani e lo sguardo timoroso e basso, era diverso. E che si può, ancora e sempre, partire per la gita. Che non è soltanto una gara a chi produce di più, che non è tutto una rincorsa del Pil, che non c’è da avere paura perché alla fine le cose che contano sono poche. Che al di fuori della macchina violenta del lavoro per come è organizzato, delle nubi scure dei tempi infami che viviamo, della paura continua per ciò che non è identico, c’è dell’altro. C’è la notte prima della gita."
Cosa c’entrino questi pensierini liceali che chiunque può sentire un po’ suoi con la condizione degli operai dello stabilimento Fca di Pomigliano d’Arco citati nel corso della terza serata sanremese, Dio solo lo sa. Sta di fatto che i cinque “lavoratori in vacanza” hanno risposto contenti, grati per la dedica. Eccolo qui, il miracolo di uno scherzo in musica che ha l’impudenza di chiamarsi “Stato Sociale”: ospitare quante più persone possibili sulla barca del consenso al proprio non-messaggio politico, con la “bonanza” e la simpatia di un gruppo di amici che può parlare a caso di cose serie, perché tanto lo fa per ridere, animato dalle buone intenzioni di chi canta e sogna un mondo migliore. Lo schema, sia chiaro, miete consensi “politici” da ben prima che la Rai si ponesse il problema di trasformare i like in dati auditel. All’uscita dei primi due dischi – Turisti della democrazia (per citare Berlusconi al Parlamento europeo nel 2003) e L’Italia peggiore (per citare Brunetta ai precari nel 2011) – l’agonia dell’impero berlusconiano seppe fornire un’eccellente cassa di risonanza; caduto Silvio, le elezioni europee, l’ascesa di Renzi i concertoni del primo maggio hanno tenuto accesa la narrazione politica promessa dall’impudico nome, sebbene nel terzo album queste velleità siano sempre più annacquate in problematiche amorose (e finalmente!).
La cosa davvero divertente di questo ricchissimo friggione bolognese è che mentre i siparietti della politica italiana hanno sempre contribuito con generosità alla poetica della band – un ministro Poletti che consiglia ai giovani di giocare a calcetto per trovare lavoro è oro colato per la performance live dei “compagni” –, per converso la politica che ha inseguito Lo Stato Sociale non ha mai ottenuto nulla: basti pensare alla parabola di Pippo Civati, che con il suo endorsement – pronunciato, ai tempi, dalla sinistra del Pd – portò più visibilità di quanto non ne abbia ricevuta indietro; o al candidato sindaco Federico Martelloni, che a Bologna fece l’errore di invitare Lo Stato alla serata di chiusura della campagna elettorale: piazza Carducci si riempì di minorenni e fuorisede senza diritto di voto, che a metà comizio iniziarono a fischiare chiedendo “musica”. Perché in fin dei conti questa è la vera base del “movimento”: ragazzine e ragazzini sognanti, che vengono tranquillizzati sul fatto che il divertimento non finirà mai.
Calcando il palco di Sanremo, questo efficace brand di spensieratezza fintamente politicizzata è entrato in maniera definitiva nell’immaginario collettivo nazionale
Calcando il palco di Sanremo, questo efficace brand di spensieratezza fintamente politicizzata è entrato in maniera definitiva nell’immaginario collettivo nazionale. Sanremo è così: porta a tutti ciò che era di una parte. A me i campioni della De Filippi, alla casalinga di Voghera i miei compagni d’infanzia. Ai quali, da queste pagine bolognesi come la loro musica (che a me personalmente non dispiace, ma qui non si parlava di quello!), mi sento di voler dire due cose. Primo: vedere degli ex compagni di giochi arrivare lassù, tra Peppe Vessicchio e Michelle Hunziker, infonde tanta fiducia, soprattutto se si pensa alla costanza e all’intelligenza con cui avete raggiunto questo risultato (non è detto che i compagni di classe di Luigi Di Maio provino gli stessi sentimenti). Secondo: il sogno di una giovinezza eterna è un sogno di destra, perché non c’è niente di più conservatore della nostalgia e della paura del futuro cantate ai piccoli.
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