«Il Mulino» di questi giorni ospita due pezzi diversamente stimolanti. Uno è l’attacco di Sergio Fabbrini ai sostenitori del «no» al referendum, liquidati come élite negative e autoreferenziali: un attacco abbastanza scomposto da suscitare l’entusiasmo di Stefano Ceccanti, uno dei nostri nuovi padri costituenti, se passa il «sì». L’altro è la recensione di Roberto Escobar allo sbarco del premier Renzi a Washington, con il fido Benigni al seguito, che però finisce per rubargli la scena. Senza saperlo, Escobar risponde già a Fabbrini: eccole, le nostre élite «positive» e «non referenziali», un presidente del Consiglio in piena trance agonistica, e un premio Oscar che accetta di viaggiare fra i bagagli del premier. Ma forse Fabbrini merita una risposta più articolata e più composta: una replica quasi zen.
Intanto, bisognerebbe fare chiarezza sulle élite: sennò si rischiano dispute teologiche come quella fra Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky (su cui è intervenuto opportunamente Gian Enrico Rusconi), che diverrebbe meno fumosa anche solo sostituendo «oligarchia» con «élite», appunto. Da politologo, Fabbrini sa meglio di me che anche la democrazia è una competizione fra élite per il potere, e che il conflitto «sì»/«no» rientra nella fisiologia democratica. Il confronto è fra una élite al potere che cerca di legittimarsi con riforme di facciata, ed élite d’opposizione che mirano – non alla pura conservazione, come Fabbrini ripete, ma – a riforme diverse, meno strumentali e più utili al Paese.
L’abolizione del Senato, intanto, che semplificherebbe tutto e farebbe risparmiare dieci volte di più. L’istituzione di macro-regioni, poi, abolendo l’attuale differenza fra Regioni a statuto ordinario e speciale, che permetterebbe di risparmiare ancora di più. Infine, ma non meno importante, la costituzionalizzazione dei rapporti fra Italia e Unione europea, che l’attuale riforma lascia alla giurisprudenza costituzionale e comunitaria che l’ha regolata sin qui. Queste sono riforme vere, non divisive, su cui si potrebbero raggiungere le maggioranze parlamentari dei due terzi necessarie a evitare altri giudizi di Dio, come questo in cui l’élite di governo ci ha irresponsabilmente trascinato. Di questo si dovrebbe discutere: altrimenti vincerà il «sì» e, come dice Massimo Cacciari, dovremo tenerci il topolino.
Ma la cosa che mi preme di più è un’altra. Girando l’Italia per lavoro e oggi anche per la campagna referendaria, incontro quotidianamente persone comuni che sopperiscono alla cronica mancanza di mezzi del fronte del «no» con l’esperienza, l’intelligenza, l’ironia, la dedizione, la passione che di solito mettono a far funzionare, loro sì, questo Paese. Persone, voglio dire, che esercitano da sole, senza l’aiuto di partiti e sindacati, ignorate dalla quasi totalità dei mezzi d’informazione, quella partecipazione democratica che i nostri padri costituenti, quelli veri, avevano immaginato prescrivendo il referendum costituzionale. Élite negative e autoreferenziali anche queste? Fossi in Fabbrini, parlerei con un po’ più di rispetto della Costituzione e del popolo sovrano.
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