“Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite dell’intellettuale”. Queste parole, che Antonio Gramsci scrive nella Questione meridionale, sono capaci, da sole, di mettere in crisi il confuso dibattito che si è scatenato, prima sui giornali e poi sui social network, sul rapporto tra "élite" e "popolo".
In quelle parole, nella descrizione gramsciana del "blocco agrario" meridionale, risuona l’idea del "blocco sociale", ovvero di quell’unione trasversale di forze che va a produrre un "blocco storico". In altri termini, il blocco sociale rappresenta l’élite che si salda con il popolo attraverso la costruzione dell’egemonia. Egemonia che non è un dato estrinseco, per Gramsci. Il blocco storico che ne viene prodotto non è né la rappresentazione degli effetti di un economicismo determinista e triviale, né, però, il riflesso idealistico della dimensione ideologica. Questo rompe con la teoria classica delle élite che postulava una separazione netta tra élite e massa. I due momenti si intersecano, così come intersecati sono i soggetti dominati e dominanti che compongono il blocco. Si ha, dunque, una visione non strumentale dell’egemonia, intesa cioè solo come mezzo di dominio di una classe sull’altra, ma di condivisione di un orizzonte politico. Struttura e sovrastruttura si sorreggono reciprocamente. Questa dimensione può essere retriva, conservatrice, ma può anche essere volta alla costruzione di un nuovo blocco storico, fondato su un’ideologia progressiva ed emancipatrice. Tutto sta a scardinare il blocco precedente. Tuttavia, ciò può avvenire solo laddove è possibile: il gioco di parole indica che il cambiamento di paradigma è possibile soltanto quando si saranno presentate le condizioni necessarie e sufficienti al suo cambiamento. Ciò che è comunque rilevante è che l’egemonia si costruisce quando il gruppo dominante diventa capace di espandere i propri interessi facendoli diventare gli interessi – vero o falso che sia – di altri gruppi subordinati. Il gruppo storico degli sfruttatori si costituisce quando lo sfruttato afferma di meritarsi lo sfruttamento.
Ma qual è, attualmente, questo senso comune (che Gramsci definisce "folclore della filosofia", a metà tra il folclore e la filosofia) dominante? Quale questa saldatura tra dimensione sovrastrutturale e struttura? La risposta, nel mondo occidentale, sembra essere il combinato disposto di economia, Stato e organismi inter- e sovra-nazionali al fine di concedere alla prima gli strumenti di gestione che in larga parte spetterebbero ai secondi. Il trait d’union è rappresentato dagli intellettuali più potenti del Ventesimo secolo: i media. Non soltanto l’egemonia si produce attraverso i media, ma essi svolgono la funzione di produrre l’occultamento del dominio di classe. Come diceva Baudelaire, il miglior trucco del diavolo è far credere di non esistere. E questo blocco accenna a entrare in crisi? L’idea di masse separate dalle élite produce un senso di conforto: la possibilità delle masse di disgregarlo. Tuttavia, se le masse e le élite sono comprese nella medesima episteme, allora la speranza suscitata da quella supposta separatezza si affievolisce.
La scuola bengalese dei Subaltern studies ha studiato Gramsci al fine di far emergere la voce del subalterno dai discorsi dominanti. Menziono questo movimento non tanto per sé stesso, quanto per la critica che ha prodotto. Gayatri Chakravorty Spivak, anch'essa bengalese, traduttrice di Derrida, professoressa alla Columbia University, ha scritto un celeberrimo saggio (Can the Subaltern Speak?) per dire che il subalterno (e massime la subalterna) "non può parlare", proprio poiché egli è iscritto in una nebbia fitta che è la nebbia della violenza epistemica, che lo costringe a guardare la realtà con gli occhiali che qualcun altro ha molato per lui. Ma non si tratta di un dominio verticale, dal dominante al dominato: entrambi vagano nella medesima nebbia.
Questa nozione – che rischia di mettere sullo stesso piano dominanti e dominati – e di attutire non solo il potere, ma anche le responsabilità dei primi, ha tuttavia il merito di rendere problematica la distinzione netta tra masse ed élite.
Dunque, per rispondere a Baricco sulle masse che si sono scocciate e hanno preteso di "fare da sé": sì e no. Una parte delle masse si è scocciata, verissimo, eppure in gran parte a governare – non nel senso semplicemente politico: essere al governo – è ancora il blocco storico di potere che governava prima. Le masse, rispetto a questo, rappresentano un'anomalia, e l’Italia è il laboratorio privilegiato di questa anomalia. Infatti in Italia c’è un movimento che, in qualche misura, rappresenta le masse arrabbiate, quelle stesse masse digitalizzate di cui parla Baricco. Ma le masse digitalizzate sono le masse dei grillini, non quelle della Lega, tuttora – nonostante gli spin e il successo sui social – molto terragne. Le masse che pretendono di fare da sé intendono farsi esse stesse volontà generale che si esprime digitalmente. Quelle masse, intendo le masse di quel movimento definito populista e rappresentato dai 5 Stelle, sono l’anomalia del sistema politico, sono il tentativo di rottura del blocco storico. Non è un caso se i media, ovvero gli intellettuali del Novecento, siano l’obiettivo del Movimento: occorre – è questa la loro ideologia – rompere il blocco sociale rompendo il collante che tiene insieme tutto. È evidente che il Movimento 5 Stelle non è solo questo: è anche ideologia che camuffa una certa gestione dirigistica e iper-elitaria della partecipazione politica e della comunicazione. Inoltre, il popolo del Movimento 5 Stelle non è certo impermeabile alla capacità di penetrazione del blocco storico e sociale che governa l'Italia e l'Europa.
Ci sono, dunque, masse pronte a scardinare l’Europa, additandola come la sentina di tutti i mali del popolo? La retorica anti-europeista è un argomento buono per le élite, un collante elettorale, un tema da campagna propagandistica permanente. Ma i grandi temi (capitale, sfruttamento, ambiente, futuro) sono tutti saldamente in mano al blocco storico. Esso non ha più bisogno di intellettuali di spinta ma solo di contenimento: soggetti individuali e collettivi non deputati all’elaborazione di un nuovo modello di società, ma al mantenimento dello status quo. Si tratta di una sorta di pilota automatico e non è da considerarsi singolare che la funzione esonerante della politica europea, rispetto alle sovranità nazionali, venga intesa e descritta proprio come pilota automatico.
Ma allora ogni cosa è perduta? E se la saldatura tra masse ed élite è, al di là di ciò che si dice, tuttora un solido blocco, come si può pensare di fenderla? Come si è detto, per Gramsci occorreva che le condizioni storiche si presentassero, rendendo il momento propizio. Pensare oggi quel momento non significa adottare una prospettiva attendista o deterministica, ma mettere in campo un fermo volontarismo, destinato a cercare una nuova saldatura tra élite e masse, tenute insieme da nuovi intellettuali. E, del resto, però, la prospettiva tratteggiata non è quella di una distinzione manichea tra élite corrotte (o semplicemente élite che comandano) e masse pure (e/o purificatrici). Nella società dello spettacolo tutto è merce, anche l’opposizione e la protesta: i movimenti contestativi diventano idee per i pubblicitari. Eppure, non siamo in una vita falsa che rende impossibile la vita vera ("non c’è vita vera nella falsa": Adorno, Minima moralia). Franco Fortini, in una riflessione sull’industria culturale, emendava quella massima adorniana: "non c’è vita vera se non nella falsa". Qui è la rosa e qui danza. Le masse hanno dimostrato nella storia anche una loro autonomia contestativa. Una loro capacità – a volte produttiva, a volte distruttiva, a volte velleitaria – di interpretare autonomamente la realtà e costituire un nuovo blocco storico. Attraverso un processo che porti élite e masse alla costruzione di un progetto comune di futuro.
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