In un dibattito sulla scuola abbastanza piatto e confuso, Liberare la scuola, il volume curato da Marco Campione ed Emanuele Contu (Il Mulino, 2020), ci ricorda che il miglioramento della scuola italiana non può che venire da una riflessione di sistema, e in particolare dall'autonomia. L'opera in tal senso è una sorta di "libro bianco": proposte, analisi e una gran messe di dati permettono al lettore di "conoscere per deliberare".
Dopo i saggi di Franco Bassanini e di Giovanni Cominelli con Laura Ribolzi, che forniscono la cornice concettuale e storica (poi ripresa nella la seconda parte del libro, Lo stato dell'arte: bilancio dei primi vent'anni di autonomia delle scuole), il terzo intervento, forse il più dirompente, è quello di Giuseppe Bertagna sull'istruzione privata, cui viene rivendicato un ruolo di utilità pubblica tale da giustificare un sostegno finanziario dello Stato. Per Bertagna i cardini sono il pluralismo offerto da istituzioni non statali quali la Chiesa e la "virtuosa competizione" tra scuole. Non è una proposta nuova, ma presenta delle difficoltà. Da un lato le scuole private, quasi tutte paritarie, sembrano offrire un'alternativa non didattica, ma religioso-ideologica (quale non può e non deve interessare lo Stato), mentre è difficile immaginare che il mercato dell'istruzione possa essere abbastanza fluido da rendere virtuosa la competizione, che rischia piuttosto di appesantire le già profonde stratificazioni sociali. Più interessante sarebbe se l'istruzione italiana avviasse un'interlocuzione con quelle istituzioni internazionali, come l'International Baccalaureate, i cui curricola sono integrabili nei sistemi di istruzione nazionale.
A seguire, spiccano (senza nulla togliere agli altri) gli interventi di Sheila Bombardo con Daniele Checchi, di Antonello Giannelli e di Mario Maviglia, rispettivamente sulla valutazione della scuola e dei docenti, sulle prerogative del dirigente e sugli organi collegiali, temi che incidono assai profondamente nella quotidianità scolastica. Quel che complessivamente emerge è la discrasia, non nuova, tra le intenzioni del legislatore e le realizzazioni concrete. La sensazione che se ne ricava è di un mancato aggancio tra il dibattito delle idee e la realtà scolastica quotidiana. Si prenda l'esempio del piano triennale dell'offerta didattica, di cui si lamenta la riduzione ad adempimento burocratico. È giusto, ma basterebbe prender parte alla commissione che compila il Ptof per vedere dal vivo come i margini di autonomia o originalità siano assai scarsi, e non per neghittosità degli insegnanti o dei dirigenti.
Tutto questo diventa particolarmente importante per la terza e ultima parte del libro, quella progettuale. Non si può rischiare, se si può azzardare un suggerimento, che la ricca messe di ottime proposte ivi formulate (assunzione di docenti, creazione di centri servizi, riforma finanziaria ecc.) vada perduta in un'altra avventura come quella sfortunatissima della Buona Scuola e di altre tentate riforme. Le reazioni avverse alla Buona Scuola non erano tutte corporative: il bonus premiale, ad esempio, ha introdotto il principio in sé sano dell'accountability, ma a costo di una valutazione superficiale e non costruttiva che ha creato grandi tensioni. Forse è necessario chiarire una volta di più che l'autonomia non viene a vessare studenti e professori, ma ad aiutarli. Talvolta nel libro si ha la sensazione che essa abbia una valore assoluto, per sé (soprattutto nel senso di "autonomia dallo Stato"), ma in realtà ha una finalità ben precisa cui è subordinata: l'efficacia.
Il rischio di appesantire l'autonomia trapela da alcuni tecno-entusiasmi forse eccessivi. Daniele Barca e Francesco Profumo abbracciano ad esempio l'idea di superare curricola, materie, classi per avere scuole che elaborano tutto da sé, al passo con il fiume in piena del progresso scientifico. Prima di lanciarsi in questi scenari, però, sarà il caso di notare, da un lato, che queste ricorrenti fughe in avanti finiscono sempre per scontrarsi con la logica sottesa all'organizzare in materie e curricola un sapere altrimenti enorme ma destrutturato, dall'altro con il fatto che il carico di lavoro riversato sulle scuole finirebbe per essere soverchiante. Il senso dell'autonomia è di avere scuole agili e reattive sul territorio, ma se per ottenere questo alcune scelte di fondo vengono lasciate in capo a un'elaborazione centrale non sarà un male: è sussidiarietà anche questa.
L'idea più interessante del libro è forse quella finale: introdurre l'autonomia solo in alcune scuole sperimentali e lasciare che lì si realizzi senza pressioni esterne. Una volta a regime, queste scuole forniranno un modello già pronto per tutte le altre. Non è facile né rapido, ma è l'approccio giusto, ed è un'ottima conclusione per il libro.
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