Islamismo e “periferie”. L’area di Kasserine, posta al confine con l’Algeria e distante trecento chilometri da Tunisi, simboleggia il cuore profondo della “Tunisia dimenticata” ed è quella che ha sofferto in maniera più tangibile l’influenza del movimento jihadista saheliano, subendo per questo reiterate operazioni militari da parte dell’esercito tunisino.
Soprattutto in questo angolo di Tunisia, la crescita economica e le politiche di privatizzazione, promesse all’indomani delle elezioni parlamentari del 2011 e del 2014, non hanno prodotto i risultati attesi. A dispetto degli ingenti finanziamenti, elargiti dal Fondo monetario internazionale (Fmi), e degli straordinari risultati politici registrati negli ultimi anni, in questa regione povertà e disoccupazione sono aumentati, colpendo in particolare donne e giovani.
Non sorprende, dunque, che siano proprio contesti come Kasserine quelli in cui Ansar al-Sharia-Tunisia, incluso nelle liste delle organizzazioni terroristiche dell’Onu e degli Stati Uniti, continua a trovare terreno fertile per reclutare nuove leve. Si tratta di un movimento radicale d’ispirazione salafita per alcuni versi slegato dal qaedismo internazionale. Il suo leader, Abu Ayadh, ha più volte ribadito che la Tunisia è una terra dove predicare l’islam, non un luogo di lotta. Agli occhi di un numero crescente di giovani tunisini la visione da esso promossa – un misto di assistenza sociale, insegnamento religioso e violenza – rappresenta un’alternativa credibile alle degradanti condizioni vissute da larga parte delle fasce più svantaggiate della società.
Sebbene autonomo, Ansar al-Sharia-Tunisia mantiene un canale diretto tanto con Al-Qaeda nel Maghreb islamico (attraverso la sua branca tunisina, Uqba ibn Nafi), l’organizzazione che lo scorso maggio ha rivendicato l’attentato contro l’abitazione del ministro dell’Interno Lotfi Ben Jeddou, quanto con i rappresentanti dell’autoproclamato “Stato islamico”, il quale gode, nella “Tunisia dimenticata” come altrove, di un crescente prestigio. Molti tra quanti si avvicinano allo “Stato islamico”, spiega Farida Souiah, ricercatrice di origini algerine che al momento risiede in Tunisia, “lo fanno in quanto non vedono un futuro, una ragione di vita: lo Stato islamico sembra offrire loro mezzi e un’alternativa che appare loro più equa”. Anche Mehdi Mabrouk, ex ministro della Cultura sotto la premiership di Hamadi Jebali, ritiene che un numero crescente di giovani tunisini “si illudono di trovare in organizzazioni come lo Stato islamico un sistema più egalitario rispetto all’autorità a cui sono sottoposti”. È significativo notare che negli ultimi due anni almeno tremila combattenti tunisini si sono uniti al “califfato” o al Fronte qaidista al-Nusra in Siria e in Iraq: migliaia di altri sono stati bloccati dalle autorità locali prima di riuscire nell’intento.
La maggioranza di quanti nelle elezioni dello scorso novembre hanno votato per Nidaa Tounes, guidato dall’attuale presidente Beji Caid Essebsi, sono adulti o anziani appartenenti alla classe media e per lo più residenti nelle aree costiere. Si tratta in larga parte di persone che, come notato da Benjamin Preisler sul “Washington Post”, “poco o niente avevano a che spartire con la rivoluzione [del 2011]”. Ancora oggi molti di essi beneficiano dei sussidi e del sistema degli affitti calmierati diffuso nell’epoca di Ben Ali.
Da un punto di vista socio-economico, Nidaa Tounes è percepito da molti giovani tunisini, in particolare quelli delle “periferie”, come un fattore di continuità con il passato. In altre parole, la Costituzione adottata nel gennaio 2014 e le libertà conquistate negli ultimi anni non sono considerati fattori sufficienti per dare forma a una società realmente inclusiva, o per creare maggiori opportunità per i settori più svantaggiati della popolazione.
Questo crescente malcontento, acutizzato dalle limitazioni dei diritti civili che le autorità locali stanno adottando in nome della lotta al terrorismo, rappresenta la maggiore minaccia con la quale dovrà confrontarsi la Tunisia degli anni a venire. Fino a quando aree come Kasserine continueranno a essere considerate quasi esclusivamente in termini legati alla sicurezza e non come possibili risorse, la Tunisia rimarrà un Paese facilmente destabilizzabile.
La nuova Costituzione e il governo di consenso nazionale, così come le risorse promesse dalla comunità internazionale per fronteggiare il terrorismo e i recenti negoziati intavolati dall’Unione europea al fine di permettere alla Tunisia di godere dello status di partner privilegiato (permetterà alla Tunisia di godere di tutti i privilegi di uno stato membro della Ue, senza tuttavia farne parte), non saranno sufficienti a garantire il buon esito del processo democratico tunisino.
L’Ue e il resto della comunità internazionale sono chiamate a intraprendere strategie condivise che non siano finalizzate esclusivamente (o quasi) a promuovere la stabilità politica, bensì uno sviluppo sociale sostenibile e inclusivo. Ciò richiede maggiori pressioni affinché l’establishment tunisino intraprenda un serio processo riformista che svincoli l’economia e, di riflesso, la società civile dalle logiche e dai privilegi del passato, coinvolgendo le aree e le fasce sociali rimaste ai margini. Il teologo cartaginese Tertulliano coniò la parola latina liberum arbitrium: oggi, come allora, il futuro della Tunisia passa attraverso l’uso che la sua classe dirigente farà di questo concetto.
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