Tutti (o quasi) i sistemi fiscali evoluti prevedono un’imposta sulle successioni (e donazioni), cioè sui trasferimenti patrimoniali in caso di morte, o tra vivi (a fini antielusivi). In Italia, l’imposta è oggi particolarmente tenue: il 4% per i lasciti superiori a un milione di euro a favore di figli, genitori, nipoti, più il coniuge; 6% tra fratelli per patrimoni superiori a 100.000 euro; 6% per gli altri parenti, 8% negli altri casi. In molti altri Paesi, le aliquote (almeno quelle formali) risultano essere molto più elevate, e così il gettito.
L’imposta, come noi la conosciamo, è un lascito della cultura liberale (radicale) degli utilitaristi inglesi (che erano anche favorevoli alla progressività delle imposte), a partire da Jeremy Bentham, James Mill e John Stuart Mill, che non escludevano il ricorso ad aliquote del 100%; Marx, dal canto suo, era contrario all’istituto dell’eredità. L’imposta di successione, comunque, è uno dei capisaldi della cultura liberale moderna. Non a caso, un sostenitore dell’imposta fu Luigi Einaudi. Il motivo è semplice: l’istituto dell’eredità, consentendo il trasferimento della ricchezza da padre a figlio, permetteva agli eredi di beneficiare di beni non derivanti dal loro lavoro e dal loro impegno, e quindi rappresentava un residuo feudale, eticamente discutibile, e dannoso dal punto di vista degli incentivi economici. Si trattava quindi di «livellare il campo di gioco» e di non alterare le condizioni di partenza nella competizione della vita, sia per motivi di equità sia di efficienza economica.
A questa tradizione si ispira la recente proposta di Letta, di aumentare le aliquote dell’imposta sui patrimoni più elevati, affinché i figli dei ricchi finanzino un patrimonio di cittadinanza per tutti i giovani alla maggiore etàA questa tradizione è chiaramente ispirata la recente proposta di Enrico Letta. Si tratterebbe di aumentare le aliquote dell’imposta sui patrimoni più elevati (oltre i 5 milioni), in modo che i figli dei ricchi finanzino una sorta di patrimonio di cittadinanza per tutti i giovani al momento del raggiungimento della maggiore età. Il messaggio solidaristico è evidente, così com’è evidente il modesto sacrificio che verrebbe imposto. Le reazioni che ci sono state sono quindi espressione di una cultura retriva, della difesa senza pudore delle posizioni di privilegio e di ricchezza. E anche di una pulsione antitasse di principio.
L’imposta di successione, quindi, viene oggi vista come uno strumento utile a realizzare o migliorare le condizioni di eguaglianza all’interno della società e a ridurre la concentrazione dei patrimoni (e quindi dei redditi). Per questi motivi essa si deve applicare anche alla trasmissione dei patrimoni in linea retta e deve diventare molto incisiva, se non addirittura confiscatoria, nel caso di patrimoni molto, molto elevati. E proprio per questo è da sempre mal vista dai ricchi che sostengono che essa avrebbe l’effetto di ridurre gli incentivi alla produzione, al lavoro, all’impegno e all’accumulazione del capitale.
In verità il ruolo dell’imposta non è stato sempre lo stesso nel corso dei secoli, anzi dei millenni. L’imposta di successione, infatti, è molto antica: il primo a introdurla fu Augusto con un’aliquota del 5% che si applicava ai lasciti a favore di persone diverse dalla moglie e dai figli del defunto. Infatti, a Roma era costume diffuso lasciare in eredità parti del proprio patrimonio a persone non legate da vincoli di parentela. L’imposta così garantiva un gettito certo e al tempo stesso funzionava come incentivo a mantenere il patrimonio in famiglia, senza disperderlo: l’esatto contrario della visione liberale. L’imposta fu più volte ritoccata dai successori di Augusto, sempre bisognosi di risorse, finché Diocleziano eliminò anche le esenzioni a favore dei familiari.
Nel XVII secolo l’imposta fu reintrodotta in Olanda, con esplicito riferimento ad Augusto, con l’esenzione del coniuge e dei figli, un’aliquota del 5% per i fratelli e aliquote più elevate per i parenti meno prossimi, che raggiungevano il 30% nei confronti di eredi stranieri. L’imposta olandese ispirò successivamente quella introdotta nel Settecento in Inghilterra. In sostanza, per lungo tempo l’imposta non ha avuto finalità redistributive; anzi, si cercava di tutelare i patrimoni familiari e di tassare gli estranei e i parenti meno prossimi. Un po’ come fa l’attuale imposta italiana.
Vi sono state anche forme di tassazione per causa di morte che colpivano l’intero patrimonio, prima di tener conto delle relazioni e dei lasciti familiari, ma come espressione di un diritto prioritario dello Stato sui patrimoni accumulati dai cittadini anche grazie alla tutela e alla protezione fornita dallo Stato stesso. A questo prelievo, poteva poi aggiungersi la tassazione dei singoli lasciti ai familiari. Ambedue i prelievi potevano essere progressivi.
Nel corso del tempo, nei vari Paesi, l’imposta è stata successivamente introdotta, modificata, soppressa, reintrodotta, a seconda delle esigenze e degli orientamenti politici prevalenti, con l’ovvia sistematica opposizione dei ceti abbienti. E non desta particolare sorpresa che negli ultimi decenni, caratterizzati dall’egemonia neoliberista, essa sia stata oggetto di un sistematico ridimensionamento pressoché ovunque.
Il gettito dell’imposta è stato ed è piuttosto limitato, e anche la sua efficacia redistributiva è sempre stata molto ridotta, come dimostra il fatto che in Europa i discendenti delle famiglie ricche e altolocate di cinquecento/seicento anni fa figurano ancora oggi nelle statistiche dei benestanti, nonostante l’applicazione di varie versioni di imposte successorie. In sostanza, sembra che la natura delle nostre economie e delle nostre società sia tale da non consentire a questa particolare imposta di funzionare adeguatamente: la libertà della trasmissione ereditaria della ricchezza a figli e nipoti e la tutela del coniuge superstite appaiono come valori fortemente radicati nella cultura prevalente nei nostri Paesi,: infatti, quando essa viene introdotta in forme incisive, si creano sistematicamente, di fatto o di diritto, scappatoie, possibilità di elusione o di evasione, pressioni per modifiche e riduzioni che alla fine tendono a prevalere.
Anche l’accertamento dell’imposta non è facile, soprattutto per i patrimoni più elevati. Perché l’imposta funzioni adeguatamente, si dovrebbero infatti colpire tutti i beni: gli immobili (terreni e fabbricati), le partecipazioni finanziarie, i titoli di ogni genere, il denaro liquido, il valore delle assicurazioni possedute, i mobili, le opere d’arte, i gioielli, i natanti, gli aerei, il valore delle imprese non quotate o valutate ai prezzi di mercato, i beni detenuti all’estero, o in gestione fiduciaria, o nei paradisi fiscali. Sarebbe quindi necessario costituire una anagrafe patrimoniale dei contribuenti da tenere aggiornata. Se tutto ciò non viene fatto, l’imposta rischia di diventare un prelievo discriminatorio sui ceti medi che possiedono una casa in città e una per le vacanze. Questa era peraltro la situazione in Italia una ventina di anni fa, che determinò un consenso generale per la sua sostanziale abolizione.
Sarebbe necessario costituire un'anagrafe patrimoniale dei contribuenti da tenere aggiornata: se ciò non viene fatto, l’imposta rischia di diventare un prelievo discriminatorio sui ceti mediMeno rilevanti sarebbero questi problemi nel caso di un’imposta ordinaria (annuale) sul patrimonio con una esenzione di base e aliquote progressive variabili tra lo 0,1%-0,2%, e l’1%-1,5%. Non è un caso che i Paesi che applicano questa tipologia di imposizione hanno imposte di successioni più moderate, e viceversa. Personalmente, quindi, io non investirei eccessive energie riformatrici sull’imposta di successione, e cercherei di introdurre una buona imposta personale sul patrimonio posseduto.
In ogni caso, in un sistema fiscale ben strutturato è opportuno che esista anche un prelievo sui trasferimenti a causa di morte o sulle donazioni inter vivos, anche se si tratta inevitabilmente di un prelievo minore e marginale all’interno del sistema stesso. Come si è detto, la proposta di Letta va nella direzione di una razionalizzazione dell’imposta esistente, si tratta di una proposta modesta ed è scandaloso che abbia suscitato tali reazioni. Sul piano politico, essa ha il merito di collegare un intervento fiscale sui più ricchi al finanziamento di un programma a favore di tutti i giovani. Si rompe così un tabù, sdoganando l’idea che le tasse possono anche essere aumentate e non solo ridotte: dipende da chi è chiamato a pagarle e da cosa si intende fare del gettito. Inoltre, è importante il collegamento logico-politico che emerge dalla proposta tra tassazione e finanziamento del Welfare.
Piuttosto, quello che appare discutibile nella proposta del segretario del Pd (che è poi quella che da anni avanza Fabrizio Barca), è l’idea (poi in parte corretta) di utilizzare il maggior gettito per la creazione di una sorta di patrimonio di cittadinanza di 10.000 euro per ogni giovane che raggiunge la maggiore età. Destinare maggiori risorse ai giovani, al loro percorso formativo, al sostegno di iniziative imprenditoriali ecc. è senz’altro utile e condivisibile, così come l’introduzione di un vero e proprio diritto in proposito, ma seguire la logica dei bonus monetari generalizzati, come fatto già da Renzi in passato, rischia di diventare l’ennesima occasione per un’inutile spreco di risorse pubbliche, con effetti profondamente diseducativi, seguendo una logica e una cultura individualista e deresponsabilizzante.
Infine, un’ultima notazione: se si volesse utilizzare l’imposta di successione come un efficace strumento a fini di redistribuzione del reddito, come molti ritengono si debba fare, a parte gli ostacoli culturali e politici che tale proposito incontrerebbe, bisognerebbe fare l’esatto contrario di quanto fece Augusto, e cioè introdurre aliquote molto elevate nella trasmissione in linea diretta dei patrimoni (figli, nipoti e coniuge), salvo minimi imponibili anche generosi, e incentivare con altre misure la destinazione di quote del patrimonio a persone o istituzioni esterne alla cerchia familiare.
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