Lavvento di una guerra porta sempre a una estremizzazione e a una polarizzazione nel pensiero e nelle azioni, anche in coloro che ne sono distanti. La reazione emotiva rischia però di essere pericolosa e controproducente. Lo stiamo sperimentando, anche in Italia, con la mistificazione delle posizioni pacifiste e nonviolente. Diverse realtà critiche verso la militarizzazione, l’uso delle armi e la violenza, pronte a difendere in tutte le situazioni le popolazioni civili, sono state ora etichettate senza troppi complimenti come “allineate a Putin" e alla sua scelta criminale: è stato sufficiente ribadire la convinzione che esiste un’alternativa alla soluzione violenta e di natura militare.

Certo, i percorsi di nonviolenza richiedono tempo, pazienza, passi concreti, mentre ora in poche settimane i riferimenti costruiti in interi decenni di lavoro sono stati spazzati via. Un punto di partenza però rimane: quando c’è la guerra non si può preparare la pace. La pace può solo essere costruita preventivamente, e con “pace” indichiamo non solo l'assenza di conflitto, ma soprattutto la presenza di diritti per tutti: una pace positiva, come ci ha insegnato Johan Galtung. Negli ultimi anni il movimento pacifista e nonviolento, proprio per consolidare gli strumenti verso una pace positiva e diminuire le minacce di guerra, ha chiesto una riduzione delle spese militari – che al contrario in due decenni sono quasi raddoppiate – e l'applicazione di percorsi di disarmo e controllo degli armamenti – con accordi invece stracciati dalle grandi potenze, in particolare sul nucleare.

La pace può solo essere costruita preventivamente, e con “pace” indichiamo non solo l'assenza di conflitto, ma soprattutto la presenza di diritti per tutti

Due punti di frizione, e a mio avviso di mistificazione, hanno sostanziato lattacco di questi giorni, ormai possiamo dire settimane, al movimento pacifista. Il primo è quello della “neutralità attiva”, banalizzato in imbelle equidistanza tra aggressore e aggredito. La distanza neutrale ci deve essere tra gli attori politici del conflitto perché è lunico approccio che permette di agire con un ruolo di mediazione diplomatico, ma non significa certo che “tutti sono uguali”. Il movimento ha scelto chiaramente, e non da oggi, di schierarsi a fianco delle popolazioni civili, che rappresentano le vittime principali in ogni conflitto armato. Persone da entrambi i lati del fronte: in questo caso, dunque, sia gli ucraini sia i russi. È una neutralità che definiamo attiva perché non vuole solo ritirarsi in un isolazionismo deresponsabilizzante o in un disinteresse egoistico.

Un concetto che avevamo espresso ben prima del 24 febbraio scorso, in un documento elaborato dalla Rete italiana Pace e Disarmo: “Allobiettivo della supremazia va sostituito quello della costruzione di un futuro comune e condiviso, cosa che richiede il superamento del divario economico e di sviluppo tra le aree geografiche e una politica di cooperazione; richiede la condivisione delle conoscenze invece della loro appropriazione, il disarmo globale, a cominciare dal disarmo nucleare unilaterale, invece del riarmo. Occorre rilanciare il progetto originario delle Nazioni Unite che metteva fuori legge la guerra e promuoveva una gestione condivisa del pianeta basata sul multilateralismo e la decolonizzazione. Il movimento per la pace si rifiuta di essere parte in questo conflitto artificiale e si pronuncia ancora una volta a favore di una relazione tra i popoli basata sulla cooperazione internazionale contro ogni forma di suprematismo”.

In tal senso riteniamo che non ci sia alternativa praticabile ai negoziati e al dialogo, anche con i governi che sono visti come nemici. Inoltre, dobbiamo invertire i passi che stanno portando a una militarizzazione dell’Ue, ridurre severamente la produzione e le esportazioni di armi e sforzarci di costruire un'infrastruttura di sicurezza europea comune che includa la Russia, così come si sarebbe dovuto fare a partire dal 1991, dopo il crollo dell'Unione Sovietica: un’occasione mancata.

Il secondo punto di frizione è quello riguardante l’invio delle armi a sostegno delle forze militari ucraine. A differenza della Nato, l'Ue non è un'alleanza militare. Eppure, fin dall'inizio di questa guerra, sembra essersi preoccupata più del militarismo che della diplomazia. Certo, le richieste di un sostegno in armamenti da parte del popolo ucraino e del suo presidente sono comprensibili e difficili da ignorare. Ma nel concreto le armi non fanno altro che prolungare e aggravare il conflitto. L'Ucraina ha precedenti significativi di resistenza nonviolenta, compresa la Rivoluzione arancione del 2004 e la Rivoluzione Maidan del 2013-14, e ci sono già atti di resistenza civile nonviolenta che hanno luogo in tutto il Paese in risposta all’invasione russa. Questi atti devono essere riconosciuti e sostenuti dall'Europa, che finora ha invece concentrato la propria attenzione principalmente sulla difesa militarizzata.

Del resto, la storia ha dimostrato più volte che inviare armi in situazioni di conflitto non porta alla stabilità e non contribuisce necessariamente a una resistenza efficace. Davvero crediamo che in questo caso l'invio di armi aiuterà l'Ucraina a porre fine alla sua sofferenza e offrirà una via d'uscita dal conflitto violento? Dobbiamo valutare con attenzione le conseguenze, i benefici, i danni e i rischi dell'invio di armi in questa guerra. Il movimento pacifista nonviolento ha messo in fila alcuni elementi di preoccupazione che ci fanno credere che il trasferimento delle armi non sia una soluzione praticabile e a minor impatto. Provo a elencarli di seguito, seppure per sommi capi.

La storia dimostra che inviare armi in situazioni di conflitto non porta alla stabilità e non contribuisce necessariamente a una resistenza efficace. Davvero crediamo che in questo caso l'invio di armi aiuterà l'Ucraina a porre fine alle sue sofferenze e offrirà una via d'uscita dal conflitto violento? 

Prolungamento dei combattimenti. Inviare armi nei conflitti non avvicina la loro fine, ma cambia l'equilibrio militare e prolunga i combattimenti. Continuare a combattere porta solo a un numero maggiore di vittime e a una maggiore distruzione, oltre a impedire l'assistenza umanitaria, mentre modifica le posizioni di forza e i risultati politici desiderati dalle parti sul tavolo dei negoziati. Dovremmo essere chiari su questo e non confondere le consegne di armi con il portare la pace: il primo risultato è un cambio di potere.

L’impatto delle consegne di piccole armi su una vittoria militare dell'Ucraina è in gran parte trascurabile, mentre potrebbe ritardare l'avanzamento delle truppe russe, minare il morale e le risorse russe e rimandare la sconfitta. Per fare davvero la differenza in combattimento dovrebbero essere consegnati altri tipi di sistemi militari, come i jet da combattimento, ma questo sarebbe, sarà, certamente considerato dai russi come una piena partecipazione alla guerra. E porterà all’escalation del conflitto. Chi propugna la soluzione militare non dovrebbe mai trascurare, nemmeno in parte, questi elementi.

Rendere pericoloso il passaggio della frontiera. Le consegne di armi attraverso il confine polacco hanno certamente già attirato l'attenzione della Russia. C'è un serio rischio di uno sforzo militare accelerato per conquistare la zona di confine e chiudere la frontiera, il che renderà molto più difficile per i rifugiati lasciare il Paese.

Finire nelle mani sbagliate. Non si può negare la possibilità, assai concreta, che le armi fornite cadano nelle mani dell'altra parte in guerra, aumentando così ulteriormente le capacità militari della Russia. In generale, le armi fornite alle parti in conflitto armato (in particolare le armi leggere e di piccolo calibro) spesso trovano strade di diffusione in altre aree: le armi che sono state usate nelle guerre in Jugoslavia e in Libia, per esempio, continuano a spuntare in altri conflitti armati, in particolare in Africa. C'è anche il rischio che le armi finiscano nelle mani di milizie di estrema destra colpevoli di razzismo violento. Inoltre, la consegna di armi ai civili è spesso sfociata in incidenti violenti tra civili e in violenze domestiche. Il rischio che le armi rimangano ai civili dopo la fine del conflitto, e che siano utilizzate nei conflitti interni e in situazioni criminali, non può essere sottovalutato.

Diventare parte in causa e minare la diplomazia. La fornitura di armi rende i Paesi europei parte in causa nella guerra. Le consegne di armi non sono un processo immediato e puntuale nel tempo, spesso richiedono istruttori e pezzi di ricambio. A poco a poco i Paesi europei potrebbero essere trascinati nella guerra. Ma essere parte in causa in un conflitto toglie credibilità a un possibile ruolo di mediatore indipendente, limitando le possibilità di diplomazia e di negoziazione.

Abbassare gli standard di esportazione delle armi. Già nel Trattato internazionale ATT, ma poi anche, in particolare, nella Posizione comune dell'Ue sulle esportazioni di armi, sono esplicitati criteri chiari relativi alle autorizzazioni di esportazione di armi. Tra le indicazioni previste dalle norme troviamo che “gli Stati membri devono negare una licenza di esportazione per tecnologia o attrezzature militari che possano provocare o prolungare conflitti armati o aggravare tensioni o conflitti esistenti nel Paese di destinazione finale”, così come chiare ed esplicite disposizioni sul rispetto dei diritti umani, il mantenimento della pace, della sicurezza e della stabilità regionali e azioni per evitare il rischio di diversion delle armi fornite. Le esportazioni di armi all'Ucraina non sono in linea con questi criteri, ma i governi sostengono che si tratta di una "situazione estrema" in cui un Paese sotto attacco ha il "legittimo diritto all'autodifesa". Da nessuna parte nelle norme è scritto che questo tipo di situazione possa annullare i criteri previsti, ma questa nuova interpretazione potrebbe portare a un nuovo standard. Anche se la guerra in Ucraina è davvero configurabile come una situazione estrema, un ulteriore abbassamento di standard già traballanti ostacolerà il controllo delle armi per molti anni. Si dovrebbe anche diffidare di una diminuzione della trasparenza, dato che i governi di alcuni stati membri dell'Ue – in particolare l'Italia – hanno già deciso di tenere segrete le esportazioni di armi in Ucraina, evitando il controllo parlamentare e il dibattito pubblico.

Cambiamento climatico e conseguenze per l'ambiente. Potrà apparire ad alcuni come un danno collaterale minore, ma la guerra ha gravi conseguenze anche in termini di cambiamento climatico e distruzione ambientale. Ci sono già stati rapporti di danni alle riserve d'acqua e alla biodiversità, inquinamento, combattimenti intorno a centrali nucleari e industrie pericolose, impatti sul cambiamento climatico. L'uso delle armi fornite all'Ucraina avrà un effetto diretto anche in questi termini.

Essere pacifisti o antimilitaristi non significa dunque essere passivi, significa cercare altri modi per resistere. Spesso messa da parte come simbolo di debolezza, la nonviolenza è un approccio che deve essere preso sul serio e ha la possibilità di effetti più duraturi dell'uso della violenza. Ci sono stati atti di coraggiosa resistenza nonviolenta da parte di cittadini ucraini contro le truppe russe. Specialmente in una situazione in cui a molti soldati russi è stato detto con menzogne che sarebbero stati accolti in Ucraina come liberatori, la resistenza nonviolenta dei cittadini può far saltare i piani militari. Quando le truppe non sono motivate a combattere non è facile raggiungere la vittoria militare, lo diceva già Sun Tzu nelle sue valutazioni sulla guerra. Allo stesso modo, si spera che tanti russi continuino a scendere in piazza per protestare contro l'invasione militare in Ucraina, nonostante il rischio concreto di conseguenze personali anche pesanti e i tanti arresti che già si sono registrati in queste settimane.

La resistenza nonviolenta non significa che non ci sarà violenza, perché l'altra parte sta usando la violenza. Ma non è ingenuo cercare modi nonviolenti per terminare una guerra, è ingenuo pensare che le armi possano risolvere i conflitti. In una situazione come questa, con tanta sofferenza e un'escalation incombente, dobbiamo e possiamo fare di più.