A inizio settembre Biden e Trump sono andati entrambi a far campagna elettorale in Pennsylvania, importante "Stato in bilico" per le elezioni intermedie di novembre che ormai occupano tutta la scena pubblica del Paese. Nel discorso presidenziale alla nazione del 1º settembre dal "sacro" spazio dell’Independence Hall di Philadelphia, il presidente ha proclamato che i Maga republicans (Make America Great Again, lo slogan trumpiano) "stanno distruggendo la democrazia americana". Il sabato seguente Trump nel primo comizio dopo la perquisizione dell’Fbi nella sua residenza di Mar-a-Lago ha proclamato Biden "nemico dello Stato" e affetto da demente senile. La radicalità dello scontro è tale che diversi commentatori temono che se Trump fosse incriminato come golpista in quanto mandante dell’assalto al Congresso del 6 gennaio, scoppierebbero scontri violenti da guerra civile.
Ma com’è che il partito repubblicano è passato dal conservatorismo ottimistico, popolare e tecnocratico di Ronald Reagan negli anni Ottanta a quello divisivo, autoritario e vendicativo odierno?
In generale tutti i repubblicani (chi vi si identifica, e gli elettori registrati che li votano) si raffigurano come i promotori della crescita economica e i garanti del big come dello small business, con potenti think tank che traducono nella vita pubblica gli interessi della grande impresa e della grande finanza. Sostengono il ridimensionamento dello Stato federale, una politica militare muscolare e che i progressi compiuti nell’eguaglianza razziale e di genere non richiedono nuove accelerazioni; criticano i temi quali l’aborto, le famiglie arcobaleno, il multiculturalismo, la varietà delle preferenze sessuali e rendono omaggio a un tradizionalismo mitico degli stili di vita che avrebbe trionfato negli anni Cinquanta.
Su altri terreni vi sono invece differenze significative accentuatesi con il prevalere del trumpismo, e l’autorevole Pew Research Center di studi politico-culturali ne propone una tipologia. Un quarto circa (23%) dei votanti repubblicani sarebbero "Conservatori della fede e della patria": sono i Maga republicans, appassionatamente trumpiani, convinti che l’elezione del 2020 sia stata rubata (elections deniers); vogliono più cristianesimo nella vita pubblica, vedono gli Usa come superiori a tutti gli altri Paesi e sono radicalmente conservatori su tutti i temi socio-economici e culturali. Di pari peso ed egualmente trumpiana è la destra populista, diffusissima in ambito rurale e con basso livello educativo: si distingue per la drastica chiusura all’immigrazione, spesso denunciata come ricetto di criminali e stupratori, è neo-individualista e critica l’iniquità del sistema economico per i favori fatti alle banche e alle grandi società a spese dell’uomo comune. Anch’essi molto attivi (circa il 15%), ma con istruzione e redditi superiori, sono i cosiddetti "solidi conservatori", votanti per Trump ma nostalgici di Reagan. Tra questi vi rientrano i managers e i dirigenti del mondo industriale e finanziario, i quali sette su dieci sono repubblicani. Complessivamente quindi più di due terzi dell’elettorato repubblicano ha votato e sostiene Trump.
Un quarto circa (23%) dei votanti repubblicani sarebbero Conservatori della fede e della patria: sono i Maga republicans, appassionatamente trumpiani, convinti che l’elezione del 2020 sia stata rubata (elections deniers)
In termini socio-politici la ricerca del Pew Center del 2017 ha appurato che il 37% di tutti i votanti registrati si auto-identificano come indipendenti, mentre il 33% si dice democratico e il 26% repubblicano. Questi ultimi prevalgono tra tutti i votanti bianchi (51% a 43%), mentre tra le donne il 37% è filo-repubblicano rispetto al 56% filo-democratico.
Il partito repubblicano ha generalemente un elettorato rurale, bianco, maschile, con bassa istruzione e buon reddito: conta infatti 16 punti percentuali di vantaggio tra i votanti rurali, mentre tra i rurali bianchi domina 58% a 34%. Tra i bianchi urbani invece i democratici prevalgono 54% a 41%. I votanti con diploma di college sono un terzo del totale, ma solo il 36% propende per i repubblicani, i quali hanno un reddito medio un poco superiore: nella fascia più povera (sotto i 25.000 dollari) i repubblicani sono il 13% (i democratici il 29%), mentre tra i redditi molto benestanti (oltre 100.000 dollari) i repubblicani sono il 26% e i democratici il 20%.
Sul terreno etnico-razziale oggi gli elettori non-bianchi (un discutibilissimo concetto che comprende anche gli ispano-americani) coprono circa un terzo dell’elettorato. La prevalenza dei democratici tra i neri è macroscopica: solo l'8% sono pro-repubblicani, tra i latinos solo il 28%, e tra gli asiatico-americani il 27%. Anche la composizione del Grand Old Party (i repubblicani) è divenuta un pochino più diversificata per razza ed etnia, poiché i non-bianchi sono oggi il 14% dopo che nel 1997 erano l’8%.
Ne risulta una geografia politica che vede gli "Stati rossi" (cioè repubblicani) prevalere nel Sud storico – un tempo serbatoio di voti democratici – e nella maggior parte degli Stati rurali del Midwest, delle Grandi pianure e delle Montagne rocciose. Si tratta spesso di aree con poca popolazione (anche se Texas e Florida sono molto popolosi e in crescita), in cui la regola di due senatori per Stato garantisce la competitività istituzionale dei repubblicani.
Da qui deriva il controverso argomento demografico, secondo cui l’incremento dei votanti non-bianchi, ma anche il trend tra donne e giovani, provoca una netta maggioranza di filo-democratici. Nelle ultime sette elezioni presidenziali su otto, questi ultimi hanno ottenuto più voti anche quando, come nel 2016, le hanno perse. Ma questo predominio è vanificato dalla vocazione ruralista del sistema istituzionale, accentuata dalle manipolazioni delle regole elettorali in corso negli Stati rossi per ridurre il corpo degli aventi diritto, specialmente tra le minoranze non-bianche.
Guardando al sorgere del trumpismo, la storica Nicole Hemmer si chiede come sia possibile che oggi abbia trionfato un conservatorismo rancoroso e razzista rispetto a quello più ottimista e consensualista di Reagan, un presidente eroicizzato tra molti repubblicani, ma il cui approccio è stato rapidamente sotterrato negli anni Novanta per l’instaurarsi del radicalismo della rabbia e della paura. Attenuatasi la discriminante anticomunista, la lotta di un nuovo personale estremista contro l’America di Clinton, come Newt Gringrich, leader repubblicano in Congresso, ha permeato molti ranghi del partito, affondato l’eredità reaganiana e costretto anche i suoi seguaci, come i presidenti Bush, a fare i conti con la crescente, nuova ortodossia razzializzata. Il nuovo ecosistema mediatico di destra guidato da Fox News ha inventato speakers insultanti e aggressivi come Laura Ingraham and Tucker Carlson che dovevano "rendere le controversie divertenti". I polemisti repubblicani, spesso razzisti e sessisti, fissati sul diritto alle armi, hanno lanciato un nuovo set di insulti contro i democratici: "traditori", "malati" e "corrotti", epiteti spesso indirizzati anche contro l’establishment reaganiano, come nei confronti del candidato presidenziale del 2008 John McCain. Dal 2010 l’estremismo si è identificato nel movimento populista dei Tea Parties, neolibertari, critici di una burocrazia federale filodemocratica oppressiva, ma anche delle misure pubbliche di salvataggio delle grandi banche e imprese attuate da George W. Bush e Barack Obama con l’esplodere della crisi del 2008. Come alla fine del percorso disse tristemente lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner: "Non c’è più nessun partito repubblicano. C’è un partito di Trump".
La storica Nicole Hemmer si chiede come sia possibile che oggi abbia trionfato un conservatorismo rancoroso e razzista rispetto a quello più ottimista e consensualista di Reagan
D’altronde i cambiamenti socio-territoriali repubblicani hanno promosso un nuovo radicalismo. Il numero di quelli che si definiscono conservatori invece che moderati è aumentato, così come la polarizzazione tra votanti rurali e urbani, e i repubblicani senza titolo di college sono cresciuti dal 42% nel 2014 al 47% di oggi. La radicalità dello scontro ha causato un’inattesa "risorgenza" dei partiti, dati in declino fino agli anni Novanta, ed è stata accentuata dal polarizzarsi della loro composizione sociale, la più contrapposta dell’ultimo quarto di secolo. Il partito repubblicano si è intanto meridionalizzato e si è permeato dei valori della sezione più conservatrice del Paese, compresa l’eredità della resistenza bianca alla conquista dei diritti dei neri. Il nuovo nazionalismo reazionario si è tinto così dell’obiettivo della "rivincita bianca".
I repubblicani e l’estremismo conservatore sono stati inoltre avvantaggiati dalle regole recenti sul finanziamento della politica. La controversissima sentenza Citizens United del 2010 ha infatti completamente liberalizzato i contributi di individui, corporations, finanza e sindacati, considerandoli espressione della libertà di parola. Ne è derivato che, al di là dei piccoli contributi individuali fino a 5 mila dollari raccolti da comitati politico-elettorali (Pacs), i donatori miliardari individuali o societari sono giunti a condizionare (talvolta anche in nero con donatori non identificati) in misura senza precedenti le elezioni. Oggi i SuperPac sono comitati che possono raccogliere e spendere fondi illimitati a favore o contro candidati e cause, a condizione di lanciare campagne indipendenti da quelle del candidato stesso. Secondo un report dell'associazione Americans for Taxes Fairness nelle elezioni del 2018 i miliardari hanno contribuito trentasette volte l'importo delle elezioni di dieci anni prima. Ma i super-finanziatori sono un gruppo molto ristretto: dal 1990 al maggio 2020, venti super-ricchi soltanto hanno fatto donazioni politiche per 1,3 miliardi di dollari, quasi il 62% di tutti i contributi dei miliardari in quel periodo. Alle presidenziali del 2020 i piccoli contributi privati sono ammontati al 22% dell’intero costo, mentre i grandi donatori ne hanno coperto il 44,5%.
I democratici hanno tentato inutilmente di riformare la sentenza United e il senso che il big business domina la politica elettorale è un potente incentivo alla non partecipazione. Se i democratici prevalgono infatti normalmente tra i piccoli contributi, per le grandi donazioni i repubblicani godono di un fgran vantaggio, che tuttavia dipende dalle circostanze politiche. Nel 2012 i multi-milionari hanno contribuito ai candidati repubblicani una cifra più che doppia di quella dei democratici. Nel 2016 lo stacco si è ridotto al 20% e nel 2018 la situazione si è ribaltata. Oggi Trump è di gran lunga il massimo collettore di fondi tra i repubblicani, al punto da generare i mugugni degli altri candidati che vedono il loro salvadanaio rimpicciolirsi a favore dell'ex presidente.
Nel discorso di Philadelphia Biden ha distinto tra repubblicani Maga, estremisti e antidemocratici, e repubblicani mainstream, patriottici e osservanti delle leggi. In realtà i Maga e gli election deniers sono prevalenti in un forte zoccolo elettorale e nelle cariche elettive nazionali e locali. Nelle elezioni di partito la benedizione o la condanna di Trump condiziona i risultati e destina oppositori e Rinos (termine spregiativo trumpiano, Republicans In Name Only, repubblicani solo di nome, troppo poco trumpiani) alla sconfitta.
Ma che i Maga e Trump stesso siano altrettanto efficaci in una elezione generale è tutto da vedere. Trump ha sì vinto nel 2016 contro l’opinione di tutti, establishment repubblicano compreso, ma, a differenza dei già eletti che negli Usa hanno molte probabilità di essere confermati, come Clinton, Obama e George W. Bush, è stato incapace di sfruttare i grandi vantaggi del presidente per vincere un secondo quadriennio.
Il trumpismo e Trump hanno profondamente modificato le stesse tradizioni del partito repubblicano. Trump ha creato lealtà fideistiche al margine del golpismo, ed è un grande collettore di voti di uno zoccolo estremista, molto mobilitato e talvolta armato. Ma con la sua ignoranza istituzionale e le sue inclinazioni autoritarie egli è anche diventato un peso per diverse èlites repubblicane: con i suoi estremismi e con le sentenze della Corte suprema iper-conservatrice, soprattutto quella sull’aborto, ha mobilitato un elettorato democratico normalmente più passivo di quello repubblicano, ha teso a disgustare quel 40% di americani che si dichiarano indipendenti e messo in difficoltà amministratori locali repubblicani di fronte alla delusione del loro pubblico, compresa la fascia giovanile meno ideologica del partito.
Trump ha creato lealtà fideistiche al margine del golpismo. Ma con la sua ignoranza istituzionale e le sue inclinazioni autoritarie egli è anche diventato un peso per diverse èlites repubblicane
Il trumpismo ha recentemente alienato pezzi del big business, tradizionalmente repubblicano, cui persino Trump ha fatto enormi regali attraverso tagli delle tasse, deregolamentazione e sussidi. Quest’ultimo tuttavia cerca anche stabilità e non ama una vita pubblica al margine della guerra civile politica. Leaders repubblicani hanno contribuito a destabilizzare il mondo degli affari, erodendo la fiducia nei vaccini anti-Covid 19, tagliando l’immigrazione legale e lanciando guerre commerciali, per cui, afferma la columnist del Washington Post Catherine Rampell, "…può darsi che la crescita della loro base populista, scettica del big business’ sia penetrata nella (loro) retorica". Recentemente l’autorevole senatore Marco Rubio della Florida ha sostenuto che la comunità degli affari è diventata "lo strumento di ideologie antiamericane". La controversia si è accentuata da quando oltre 100 Pacs del business hanno deciso di sospendere i contributi agli election deniers candidati a novembre.
Sotto il potente blocco trumpiano corrono quindi tensioni latenti. Ci sono i "Maga oltre Trump", come il governatore della Florida Ron DeSanti o il senatore del Texas, Ted Cruz, che aspirano a essere candidati presidenziali nel 2024, elevando magari Trump a padre nobile. Poi ci sono alcuni leader Rinos che hanno litigato con Trump, come l’ex-vicepresidente Mike Pence, o il capo della delegazione repubblicana al Senato, Mitch McConnell, o alcuni governatori che non approvano il suo estremismo anticostituzionale e criticano il suo parallelo tra la perquisizione dell’Fbi a Mar-a-Lago e le Ss naziste.
Il futuro di Trump si lega all’intreccio tra i risultati elettorali e le vicende legali. Per i repubblicani le prossime elezioni intermedie sono anche un referendum su di lui. È solidissima tradizione che il partito del presidente perda alle prime elezioni intermedie, e che i repubblicani riconquistino la Camera è abbastanza pacifico. Ma mentre due mesi fa sembravano star per conquistare l’intero Congresso e creare una nuova guerra tra esecutivo e legislativo, autorevoli sondaggisti dicono che i democratici potrebbero tenere la maggioranza in Senato. Se si tratti di un trionfo o di una vittorietta fisiologica avrà non poco peso sul futuro del partito e sulle candidature del 2024.
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