Ogni anno, con l'inizio dell'inverno, i media tornano a dare conto dell’emergenza clochard, ma come se si trattasse di un fenomeno stagionale. Tuttavia i problemi di chi vive in strada non hanno stagione: in inverno c’è da affrontare il freddo, in primavera e autunno la pioggia, in estate il caldo. E tutto questo riguarda solo il corpo, che spesso per le persone è l'aspetto meno importante. Nei giorni di neve Marco mi racconta che «non fa freddo, ho il sacco a pelo e poi ho anche due coperte»; per lui il problema sono «i nemici».
Le amministrazioni pubbliche fanno grandi sforzi, ma la multidimensionalità del problema richiede un impegno continuo per stare al passo con i problemi di ognuno. Mettere tende, container o aprire le stazioni della metropolitana risponde alle esigenze del corpo, ma le persone in strada sono qualcosa di più di un corpo da vestire e di uno stomaco da riempire e infatti chiedono, a loro modo, di più. In genere una cosa molto semplice: essere prossimo di qualcuno, essere l’altro che ti è vicino. Un prossimo non astratto, il tuo prossimo: quello che ti sta vicino, su cui puoi posare la mano (la parola greca "plesìos", nel Vangelo di Luca).
L’arrivo in strada non è un evento improvviso e, in genere, non deriva da un fatto eclatante, ma da una serie di fratture che si mettono in fila e destrutturano la persona
L’arrivo in strada non è un evento improvviso e, in genere, non deriva da un fatto eclatante, ma da una serie di fratture che si mettono in fila e destrutturano la persona: perdita del lavoro, delle relazioni primarie, delle reti amicali, della casa, della salute. Una stratificazione di fragilità che logora ogni potenziale; l'esistenza va avanti con alti e bassi e soprassalti, ma con una sola continuità: lo stare in strada. Alcuni vi restano alcune ore, giusto il tempo per fare un po' di colletta, poi si rifugiano in biblioteche, centri diurni, ospedali; altri vi arrivano solo di notte; altri ancora in strada sono sempre, in alcuni casi non si muovono dal metro quadrato della panchina su cui dormono. Sono così fissi nel luogo che hanno scelto da diventare invisibili, parte di un paesaggio standard dove la loro presenza diventa normalità urbana.
C’è poi il fattore tempo. Se nel corso del primo anno la maggioranza cerca in tutti i modi di lasciare “quel brutto posto”, lentamente subentra una fase di adattamento e poi di consolidamento. Con il passare del tempo la deprivazione diventa cronica, aumentano le difficoltà relazionali e comunicative, che a loro volta riducono le potenzialità progettuali e le possibilità di emancipazione e di uscita. Ciò significa che per ognuna di queste fasi andrebbero messe in atto azioni diverse, che dovrebbero essere poi intrecciate con i fattori che hanno portato la persona in strada, con la sua storia, la sua età, la sua voglia di cambiamento.
Il rispetto non consiste nel lasciare le persone libere di dormire in strada, perché la vita sulla strada è corrosiva, destrutturante, distruttiva
Sono percorsi diversi che richiedono strategie diverse, strade diverse: per alcuni può essere utile una “stretta forte”, perché se stai precipitando non c'è tempo di chiedere, occorre solo salvarsi. Per altri servono relazioni di affetto, gesti quotidiani, abbracci e strette di mano ripetute, per mesi, a volte anni. Non c'è una standardizzazione possibile dei percorsi, ma fatica quotidiana e la consapevolezza che il rispetto non consiste nel lasciare le persone libere di dormire in strada, perché la vita sulla strada è corrosiva, destrutturante, distruttiva. La strada porta alla morte, sia essa improvvisa o più lenta. Il potenziale di lotta, già̀ molto minato, diminuisce giorno dopo giorno. L'aiuto ha come limite la libertà della persona, l'aiuto ha un confine oltre il quale la persona non ti permette di accedere. Ma se una persona rischia la vita si può rispettare la sua libertà? E poi quanta consapevolezza c'è davvero? Quanta libertà c'è in questa libertà?
Andrebbe ascoltata ogni storia prima di ogni intervento: ci sono persone con patologie psichiatriche, persone con problemi di dipendenze, persone che sono stati «minori in difficoltà», presi in carico dai servizi sociali fin dall'infanzia. «Sono cresciuta in comunità», spiega Maria, «è colpa mia se mio padre beveva? Se l’oppressione domestica mi spingeva alla trasgressione come l’altra faccia di una brutta medaglia che come la giri giri ha sempre lo stesso valore...? Sono cresciuta troppo in fretta, volevo crescere per scappare e così mi sono messa a tirare la vita per accelerare i tempi. Così, a forza di tirare, ho sradicato la pianta, insomma ho strappato la mia vita dalla terra che la nutriva: non ho più avuto i minerali, l’acqua e il sole, ma una sostanza che mi passava per le vene... aveva il volto del sogno, ma è diventata un incubo da cui non mi riesco a svegliare».
Alcuni hanno avuto una vita “normale” che poi è precipitata, altri ancora sono all’interno di un percorso migratorio. Alcuni sono giovani, altri vecchi. Fausto la notte, quando sogna, urla «Papà, non mi picchiare!!». Il papà beveva, lo picchiava; questi dolori familiari si sono trasformati in una ricerca di evasione dalla sofferenza che ha portato lui e i suoi sette fratelli verso l’eroina, le rapine, il carcere e la strada.
Anche Antonio è stato in carcere. Con la famiglia non ha relazioni e non ha alcuna forma amicale di sostegno. Appena uscito si è trovato letteralmente in mezzo a una strada. Ha iniziato la trafila dei dormitori, delle mense, dei centri diurni. Ma ha buona volontà, trova un lavoro. Si alza alle cinque del mattino, poi due ore di autobus per arrivare in cantiere e due per tornare; quando arriva nei dormitori, alle nove di sera, non trova mai posto. Dorme nel dehor di un bar, tiene il lavoro, è determinato, e quando il suo capo gli dice di andare a Milano lui accetta nonostante abbia l’obbligo di dimora. Incontra un bel gruppo di volontari e un dormitorio flessibile ai suoi orari. Non gli danno tempi di uscita cadenzati come nei dormitori pubblici e dopo un anno riesce a trovare una casa in affitto dove si stabilisce con Daniela, la sua compagna. Sembra l’epilogo di un successo, ma pochi mesi dopo arriva la cassa integrazione, le bollette si accumulano (e forse alcuni problemi riaffiorano) e arriva anche lo sfratto. Nel frattempo la mamma di Daniela viene buttata fuori casa dal marito, loro la accolgono, ma ormai il tempo si è fatto breve. La povertà, spesso, assomiglia a una malattia endemica che non ti togli più. Ormai il tuo sangue è infetto, ogni tanto il virus ricompare. Se non hai una rete di sostegno al primo inciampo cadi.
Sono migliaia, ma sono soli, bevono, parlano, mangiano da soli. Hanno ferite evidenti – rughe che sembrano colpi di machete, segni di notti passate col viso a terra – su volti che non hanno bellezza, che non stimolano una qualche forma di prossimità. Hanno percorsi che imporrebbero una differenziazione delle strutture e degli approcci. Per molti la casa non è una risposta, non la saprebbero gestire; ma non lo è nemmeno il dormitorio: servono strutture intermedie semi-pubbliche dove si è protagonisti senza essere soli. Bisogna esserci, con i poveri; non si tratta della cosiddetta tempestività degli interventi, ma di essere lì dove i problemi avvengono, fermarsi, ascoltare, attraversare la sofferenza. Poi provare a fare insieme un cammino, intrecciare il proprio destino con quello di un’altra persona, cercare e creare alleanze, non avere un rispetto asettico ma lottare insieme, sapendo che la vita certo finisce, ma non quando pensiamo noi, non necessariamente quando tutto è perduto.
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