Che giudizio dare dell’azione del governo Meloni, ad oltre un anno dal suo insediamento? Qui proverò a formularne uno, con riferimento ad alcuni parziali ma importanti ambiti di azione: le politiche di sviluppo e di coesione territoriale e sociale. Ma anche seguendo il consiglio di quanti suggeriscono di non adottare un approccio “ideologico”, prevenuto, ma di basarsi su decisioni e fatti concreti. Tuttavia, a differenza della valutazione che talora viene parallelamente formulata, non ne scaturirà l’immagine di un esecutivo “moderno” e “europeo”, moderato nei toni e nelle scelte. Al contrario, emergerà un esecutivo fortemente caratterizzato a destra, per usare una distinzione politica che conserva tutta la sua validità; poco sensibile alle questioni delle disuguaglianze e all’universalismo delle politiche e invece assai attento a consolidare la propria presa sul potere e a coltivare il consenso di gruppi e corporazioni; caratterizzato sovente da un piglio autoritario, dalla netta prevalenza dell’esecutivo sul legislativo e da scarsa attenzione alla trasparenza.

Come giustificare tali valutazioni? Cominciamo dal Pnrr. Programma assai complesso e che richiede grande attenzione nelle analisi; sul quale la discussione pubblica era stata assai modesta, nonostante le proposte del Forum disuguaglianze e diversità e qualche contributo su questa rivista. Un programma che tocca tutti gli ambiti di azione pubblica e che comporta importanti scelte politiche. Meloni ha ricevuto dal governo Draghi un’eredità con luci e ombre; fra le principali criticità, un disegno d’insieme assai articolato, un processo di selezione degli specifici progetti lasciato all’autorità dei singoli ministri (in alcuni importanti casi con criteri assai discutibili) e un andamento della spesa molto peggiore rispetto a quanto previsto (ma anche a causa dell’inflazione). Il governo Meloni ha esordito attribuendo la responsabilità per il Pnrr al ministero per le Politiche di coesione, strettamente legato alla presidenza del Consiglio: una scelta, alla luce dell’esperienza precedente, che appare positiva.

Ma il ministro Raffaele Fitto ha interpretato questo ruolo in maniera decisamente discutibile. Riguardo al Pnrr, ha dedicato subito attenzione a smantellare le strutture tecniche insediate da Draghi, cosa che potrebbe aver contribuito ai ritardi che poi si sono accumulati. Ha mostrato scarsa attenzione all’informazione, al Parlamento e all’opinione pubblica: ha reso nota solo con grande ritardo, il 31 maggio 2023, la Terza relazione sullo stato di attuazione e non ha mai pubblicato la Terza relazione sul rispetto dell’allocazione del 40% delle risorse nel Mezzogiorno (l’ultima risale al giugno 2022). Per mesi ha formulato valutazioni estemporanee (si vedano le dichiarazioni su “Il Sole - 24 Ore” e “La Stampa”), estremamente critiche sul Piano e sulla sua attuazione, ormai da tempo di sua competenza; ma si è impegnato parallelamente in una vivacissima polemica con la Corte dei Conti per le valutazioni preoccupate di quest’ultima. Solo a fine luglio ha reso note le principali linee di una proposta alla Commissione europea di revisione del Pnrr (analizzate su questa rivista) ma senza diffonderne il testo ufficiale. A fine novembre la Commissione ha approvato le modifiche, con cambiamenti rispetto alle proposte di luglio. Tuttavia, al momento di scrivere queste note non ne sono ancora pubblici tutti i fondamentali dettagli, in particolare gli importi delle misure escluse o ridimensionate: la presentazione fatta dal governo ha dimenticato di fornire queste informazioni. In sostanza, non è ancora disponibile, per i parlamentari e per i cittadini, una versione aggiornata del Piano.

Ciononostante, grazie alle notizie apparse sulla stampa, sono chiare le scelte politiche compiute. Il Piano è cambiato: meno servizi pubblici, più risorse ai privati. Si è puntato a colpire soprattutto gli investimenti dei grandi comuni italiani, particolarmente quelli mirati alle zone più periferiche; sono stati esclusi dal Pnrr progetti di rigenerazione urbana e piani integrati di grande rilevanza (anche se in piccola parte rientrati con la decisione comunitaria di novembre). Da mesi Fitto continua a garantire che saranno rifinanziati con altre risorse, ma da mesi non è affatto chiaro con quali; Giorgetti esclude disponibilità di bilancio, definendo i progetti esclusi “debito cattivo” (non ricordando forse di essere stato ministro anche nel governo che li ha approvati). È stato drasticamente ridotto il numero di case e ospedali di comunità che verranno costruiti, a causa dell’aumento dei costi: ma sarebbe bastato, per garantire lo sviluppo di quelle fondamentali infrastrutture di sanità territoriale in tutto il Paese, utilizzare parte delle risorse recuperate, o quelle dei fondi per la prosecuzione delle opere pubbliche e per l’avvio delle opere indifferibili. Una decisione che appare coerente, tuttavia, con lo scarso interesse del governo per il potenziamento della sanità pubblica. Ancora, il numero di posti in asilo nido che si realizzeranno con il Pnrr è sceso da 264 mila a 150 mila, in stridente contraddizione con le sbandierate prospettive nataliste (il recupero annunciato, se pur realizzato, sarà parziale).

In compenso, crescono gli incentivi a pioggia alle imprese: 6,4 miliardi di crediti di imposta cosiddetti “Transizione 5.0”, in aggiunta ai 18 di “Transizione 4.0” già previsti dal vecchio Pnrr, che si concentreranno a vantaggio delle imprese delle aree più forti del Paese; oltre a cospicue risorse per le imprese agricole, che si sono mostrate molto vicine al governo. Tanti soldi per le imprese. Ma senza alcuna strategia di politica industriale, alcun indirizzo per modificare, ampliare, la struttura produttiva italiana, anche nell’ottica della transizione verde. Una mancanza di visione, in un momento storico nel quale tanto negli Stati Uniti quanto in Europa si agisce per contribuire a un rilevante cambiamento delle strutture produttive, per diminuire la dipendenza strategica dall’import e sviluppare le tecnologie emergenti.

La revisione del Pnrr taglierà in modo particolare gli investimenti pubblici al Sud e polarizzerà ancor di più territorialmente la struttura produttiva del Paese

Per quanto riguarda le politiche di coesione, è certamente opportuno che si lavori per la loro integrazione con il Pnrr. Ma anche su questo versante il bilancio è assai discutibile, a cominciare dal fatto che proprio la revisione del Pnrr taglierà in modo particolare gli investimenti pubblici al Sud e polarizzerà ancor di più territorialmente la struttura produttiva del Paese; non sorprendentemente il governo si è ben guardato dal fornire alcun elemento sull’impatto territoriale delle revisioni.

Anche in ambito di coesione, la principale preoccupazione è stata concentrare il potere: questa la principale finalità del Decreto Sud approvato nel novembre 2023. Fondendo l’Agenzia per la coesione nel Dipartimento per le Politiche di coesione la si “ministerializza”: non più programmazione, ma tanta gestione; anche con la diretta finalità – come per il Pnrr – di sostituire tanti tecnici con nuovi esperti di diretta fiducia del ministro (con conseguenze sull’efficienza operativa su cui è lecito nutrire notevoli preoccupazioni). Si sostiene, correttamente, che Pnrr e coesione, politiche nazionali e regionali vanno maggiormente integrate. Ma questo si sta traducendo non in una collaborazione ma in un braccio di ferro con le regioni del Sud governate dall’opposizione, e in tentativo di rivedere “dall’alto” lo stesso impianto delle politiche di coesione, inserendo d’autorità una “riforma” nel nuovo Pnrr che lo stesso, notoriamente cauto “Sole - 24 Ore” definisce azzardata.

La stessa logica ha ispirato la cosiddetta Zes (Zona economica speciale) unica: un termine del tutto incongruo, dato che non è mai esistita e non esisterà mai nel mondo una zona economica speciale delle dimensioni dell’intero Mezzogiorno. Si è intervenuti su una misura, certamente discutibile, introdotta nel 2017: prevalentemente un regime di crediti di imposta. Il cambiamento più rilevante che ne consegue è che ora è una struttura di missione nazionale a svolgere per l’intero Mezzogiorno le funzioni di sportello unico per le autorizzazioni alle imprese, perdendo quei saperi e quelle competenze disponibili nei territori spesso assai importanti proprio per accompagnare le imprese nella precisa definizione dei loro piani. In sostanza tutte le autorizzazioni passeranno dal tavolo del ministro, con evidenti rischi di ingolfamento. Anche per quanto riguarda le aree interne, si prevedono nuove cabine di regia: una sovrapproduzione, e una conseguente incertezza, normativa.

Nell’insieme, si punta come in un lontano passato a concentrarsi soprattutto sull’incentivazione delle imprese trascurando la più complessa infrastrutturazione materiale e immateriale dei territori più deboli, e il potenziamento dei servizi ai cittadini e alle stesse imprese. Se è vero che le politiche si sono molto frammentate e che è opportuno coordinarle di più, l’idea di condurle operativamente da Roma, senza dialogo con i territori pare assai discutibile. Sono scelte che, come documentato da almeno trent’anni, non portano certamente lontano. Dare incentivi fa spendere velocemente: ma non cambia le condizioni strutturali. Anche considerando che queste scelte si affiancano a decisioni che colpiscono direttamente le fasce più deboli della società, specie nel Mezzogiorno, come la drastica riduzione del Reddito di cittadinanza; e la decisa opposizione all’introduzione del salario minimo. Come ha mostrato la Svimez, diffusa povertà e presenza di vaste fasce di lavoro precario e sottopagato connotano il Mezzogiorno anche in un periodo di discreto andamento economico come quello più recente.

Ma conta solo ciò che brilla e produce immediato e interessato consenso. La coesione passa, per il governo Meloni, soprattutto attraverso la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina – proposto da Salvini ma certamente apprezzato da Fitto, vista la sua forte propensione per i “grandi interventi”. Ad esso sono stati destinati cospicui fondi di bilancio con grande soddisfazione delle imprese interessate alla costruzione, nonostante non sia ancora disponibile il progetto finale (e quindi non siano certi i relativi costi), non sia affatto dimostrato che rappresenti la migliore opzione per l’attraversamento rapido dello Stretto e non sia minimamente previsto quanti treni potranno effettivamente attraversarlo. Scelta che drenerà certamente cospicue risorse precedentemente stanziate per interventi nelle infrastrutture di trasporto nelle città italiane e nelle stesse regioni Calabria e Sicilia: così che potrebbe, se mai realizzato, collegare reti di trasporto ancora gravemente sottosviluppate nelle due regioni.

Un ulteriore dossier fondamentale è quello sull’autonomia regionale differenziata, la “secessione dei ricchi”. Il governo Meloni dichiara di voler concedere a Lombardia e Veneto enormi competenze tali da renderle delle vere regioni-Stato (l’attuale posizione dell’Emilia-Romagna, anche a seguito dell’esito delle vicende politiche del Partito democratico non è affatto chiara). E trattamenti fiscali di netto favore, come quelli concessi alle regioni a statuto speciale, che hanno nel tempo condotto i cittadini del Trentino a godere di cospicui e ingiustificati privilegi nei confronti degli stessi cittadini del Veneto. Per questo ha sottoposto al Parlamento una normativa che disciplina il processo di concessione di poteri e risorse. Normativa non necessaria costituzionalmente e che ha due principali finalità.

Da un lato, escludere lo stesso Parlamento da ogni potere di discussione e di scelta sui tantissimi aspetti delle richieste, concentrando tutte le decisioni nelle mani della presidente del Consiglio: una vera e propria anticipazione del cosiddetto “premierato”. Dall’altro, provare a sopire i malumori dell’elettorato del Mezzogiorno facendo balenare, con l’importante ausilio di insigni giuristi, i livelli essenziali delle prestazioni previsti dalla Costituzione. Ma che si tratti di una mera e vaga definizione e non certo di un processo per la loro effettiva garanzia, lo ha scritto molto chiaramente lo stesso governatore della Banca d’Italia in una lettera a Sabino Cassese, tanto inconsueta nei modi quanto dura nei contenuti; lo ha confermato lo stesso Calderoli. A scanso di ogni dubbio il governo si è ben premurato, nominando a capo della importantissima Commissione tecnica Fabbisogni standard, che produrrà i dati su cui verranno eventualmente prese le decisioni, una giurista dell’università di Udine, componente ufficiale della delegazione che tratta questa materia nell’interesse della regione Veneto.

La presidente del Consiglio ha radicalmente mutato le proprie idee sulle regioni, che in un passato non lontano voleva abolire. Certamente non le dispiace il totale silenzio dei mezzi radiotelevisivi e della grande stampa

Evidentemente, pur di continuare a governare, la presidente del Consiglio ha radicalmente mutato le proprie idee sulle regioni, che in un passato non lontano voleva abolire. Certamente non le dispiace il totale silenzio dei mezzi radiotelevisivi e della grande stampa (inclusi i quotidiani di Roma e Napoli che per anni avevano contrastato questo progetto e che dall’estate osservano un totale mutismo): bene non sottolineare le contraddizioni all’interno della maggioranza e non disturbare il manovratore. Anche se le contraddizioni sono evidenti: come tenere insieme una impostazione di assoluta centralizzazione delle politiche pubbliche nei ministeri con il desiderio di concedere ad alcune regioni poteri esclusivi su scuola, sanità, infrastrutture, energia, ambiente?

Ecco, sommariamente, le motivazioni dei giudizi espressi in apertura. I principali assi della azione di governo paiono: il consolidare la presa sul potere, senza che sia affatto chiaro un modello di società e di Paese verso cui tendere, e marginalizzando il più possibile il Parlamento; il concedere massicci sussidi a imprese e gruppi di interesse, senza alcuna strategia di sviluppo industriale, per coltivarne il consenso; il trascurare il rafforzamento di strutture e servizi di taglio universalistico, con scarso interesse per le diseguaglianze sociali e territoriali; il prestare grande attenzione agli annunci ma assai meno a trasparenza e informazione.

Queste valutazioni così negative nascono da analisi di fatti e decisioni, che qui si è provato, seppur sommariamente, a ricostruire. Certamente non da un’“ideologica” condivisione delle posizioni dell’opposizione, la cui azione peraltro si mostra distratta e carente, su non pochi di questi temi.

L’auspicio è che, in ogni sede, possa proseguire e anzi ampliarsi un dibattito informato e critico sull’azione del governo della destra, rifuggendo le ricorrenti tentazioni di ergersi a concilianti consiglieri di un principe così fortemente caratterizzato. O, più prosaicamente e semplicemente, di saltare in corsa sul carro del vincitore.