Capeggiati da Gianfranco Viesti, un gruppo di autorevoli studiosi si sta battendo contro quella che è stata denominata la “secessione dei ricchi”. Una battaglia sacrosanta per molti e ben noti motivi: le discriminazioni che il regionalismo differenziato è destinato a suscitare tra due Italie; i rischi insiti nella regionalizzazione di alcune competenze; la procedura eterodossa, e una volta di più mortificante per il Parlamento, che si vuol adottare.
I grandi partiti avevano perfezionato l’unificazione del Paese. I loro minuscoli eredi intendono disfarla. Ma il problema più grave è che, ove si riuscisse a sventare la manovra, grazie ai calcoli di convenienza elettorale dei 5 Stelle, dissonanti da quelli della Lega, la secessione dei ricchi resterà comunque in agenda. È da trent’anni che si ripropone di tanto in tanto, non è detto che si riesca a contrastarla all’infinito. È già successo che scelte politiche dagli effetti micidiali siano state a volte compiute per sbaglio o disattenzione. Ne è mirabile esempio la vicenda della separazione tra cechi e slovacchi. Altro incidente esemplare è la Brexit. Il governo che indisse il referendum cercava unicamente legittimazione a basso costo; non lo volevano l’alta finanza, né i sindacati ed è dubbio che lo volessero tutti gli elettori che l’hanno votato, parte dei quali stando ai sondaggi sarebbero pronti a un ripensamento. In compenso gli elettori vi trovarono occasione per manifestare la loro insofferenza per l’esecutivo in carica e per alcuni decenni di politiche pro-market: sono le regioni più danneggiate da queste politiche che hanno prodotto un risultato che nessuno sa bene come gestire e i cui effetti sono potenzialmente devastanti.
Ma la secessione dei ricchi non finirà soprattutto perché è il più grande fatto politico di questo nostro tempo, e non da oggi. La stagione precedente era stata segnata da un’apprezzabile riduzione delle disuguaglianze. Dagli anni Ottanta la forbice ha ripreso ad allargarsi, l’ascensore sociale verso l’alto si è bloccato e i ricchi hanno fatto abbondante secessione. Delocalizzando le fabbriche e informatizzando gli uffici si sono liberati del lavoro dipendente. Hanno fatto secessione riconvertendosi dalle attività manifatturiere a quelle finanziarie, grazie ai consumi di lusso, ai paradisi fiscali e a molte forme di fiscalità privilegiata e non progressiva. Perfino fisicamente hanno preso il largo nelle scuole e università di élite, nei quartieri gentrizzati, nelle gated communities.
Una variante subdola e assai riuscita di secessione dei ricchi, mascherata da meritocrazia e autonomismo democratico, è quella territoriale. Qui si situa il nostro caso.
Nella stagione precedente, date diversità e disuguaglianze tra territori, lo Stato nazionale aveva il compito di riequilibrare quelle disuguaglianze, favorendo la redistribuzione delle attività manifatturiere e delle opportunità occupazionali, anche per decongestionare le aree più affollate. Da un po’ di tempo in qua territori, regioni, città sono in competizione. Sono capitali da mettere a profitto. Ciascuno ha le sue risorse naturali, la sua struttura produttiva, le sue infrastrutture, il suo capitale sociale, il suo regime amministrativo e di governo: la concorrenza ne stimolerà il dinamismo. È una prospettiva ipocrita e ingiusta. Che finge che i territori siano tutti nelle medesime condizioni alla partenza, dispongano delle medesime risorse e siano sottoposti alle medesime sfide.
In Italia la variante territoriale della secessione dei ricchi è iniziata in anticipo. Fino alla metà degli anni Ottanta il principio di solidarietà ha ispirato le politiche d’intervento per il Mezzogiorno, imperniate sull’azione della Cassa. Che alla lunga fu soffocata dalle pressioni divenute esose dei partiti di governo; dalle rivendicazioni delle neoistituite regioni, intese ad appropriarsi dei finanziamenti e della conduzione delle politiche; dalle obiezioni delle opposizioni, che rivendicavano politiche d’intervento diverse. Le forze politiche si rivelarono incapaci di elaborare un disegno di policy sostitutivo. Era peraltro iniziata con gli anni Ottanta la grande ristrutturazione dell’economia nazionale. In questo sfondo vide la luce la Lega Nord, con la sua proposta di scaricarne i costi sul Mezzogiorno. I motivi non mancavano: la grande offensiva del crimine organizzato e la conduzione inefficiente dell’azione di governo da parte degli enti locali aiutavano a definire irrimediabile la condizione del Mezzogiorno. Sperperi e inefficienze non erano esclusiva delle amministrazioni meridionali. Né allora né oggi. Solo che quando le disponibilità finanziarie abbondano sono più agevolmente occultabili e meno dannosi. Ad ogni buon conto: costringere alla fame chi è già in difficoltà non è un buon modo per educarlo alla virtù.
Negli anni successivi attorno alla Lega si formò un’implicita coalizione d’interessi. Coinvolgeva larghi segmenti dei partiti di governo, nel frattempo travolti e rigenerati dalla crisi politica del ’92-94, e pure del mondo imprenditoriale. Di qui il tentativo di disinnescare il leghismo, portato da Berlusconi al governo, da un lato dirottando verso il Centro Nord una sostanziosa mole di risorse, dall’altro concedendo più ampie autonomie alle regioni. Il distacco fu però soprattutto politico e simbolico: il Mezzogiorno non era più una priorità nazionale. L’ha sanzionato la famigerata riforma del Titolo V, voluta a ogni costo nel 2001 dal centrosinistra, che comunque all’indomani perse le elezioni.
Senza disinnescare il leghismo, la riforma ha condannato il Mezzogiorno all’abbandono. In assenza di un’alternativa efficace alle politiche d’intervento straordinario, gli si è anzi inflitto un costo altissimo, di cui è prova il disastroso stato delle sue infrastrutture. Ha pagato un costo più alto delle regioni settentrionali per la crisi finanziaria del 2008 e per le politiche di austerità, anche in ragione della maggior gravosità dei piani di rientro della spesa sanitaria. Ha pagato un costo molto alto il suo già debole sistema industriale, per un fenomeno per nulla imputabile alle responsabilità del ceto dirigente locale (l’ha detto bene ancora Viesti, sul “Mulino”) come la concorrenza delle economie emergenti. In verità, un costo elevato l’hanno pagato anche regioni come Piemonte e Liguria: investite in pieno l’una dalla ristrutturazione dell’industria automobilistica, l’altra da quella della siderurgia, della cantieristica e di altri comparti ancora.
L’intreccio tra politiche pro-market e aggressività leghista, assecondata da altri, ha così già provocato una secessione territoriale spietata delle regioni più ricche. Conviene anche ricordare come contro la retorica leghista una pattuglia di volenterosi a suo tempo mobilitò l’armamentario della nazione. Senza attardarsi sui moventi profondi del leghismo, è stata una sinfonia di riflessioni sul tema. Che hanno chiamato in ballo un qualche deficit originario di spirito nazionale, o il sopravvenuto decesso della patria. Il culmine si è raggiunto con le celebrazioni del centocinquantenario. Perfino entusiasmanti, ma che non hanno zittito le sirene secessioniste, che hanno tosto ripreso a cantare.
Ognuno ha la Brexit o la Catalogna che può. Il paradosso è che ai veri ricchi della sanzione giuridica dell’autonomia differenziata importa poco. L’ha detto il sindaco di Milano. A capo dell’unica grande città globale del Paese, Sala vede giustamente una minaccia nell’autonomia differenziata. Come i finanzieri della city che vedevano la Brexit come il fumo negli occhi. Che governo regionale potrebbe sortirne? Cosa potrà divenire l’istruzione regionalizzata sotto l’ispirazione dei tanti Salvini, Bussetti, Fontana, Pillon, Zaia, Stefani? È uno scenario dell’orrore. In realtà, la Lega vuol mettere le mani su un malloppo finanziario sostanzioso e gratificare per un po’ i suoi elettori, che proprio ricchi non sono, ma s’illuderanno di esserlo. Non è da sottovalutare l’avidità di potere di altre classi dirigenti locali: avranno magari meno soldi, ma saranno più libere di spenderli e sono già in coda per seguire l’esempio.
Forse il destino dell’Italia è segnato. Il suo declino è gravissimo e le classi dirigenti di cui dispone, politica e imprenditoriale, sono di rara modestia. Tempo fa un loro pezzo, perfino il migliore, si persuase che l’Europa fosse il toccasana. Solo che l’Europa non è un consesso di generosi benefattori. È un’avida Europa di mercanti, dove impazza la competizione. Quando i più forti hanno visto che l’Italia, anche per i capricci delle elezioni e dei sistemi elettorali, era finita in mano a classi dirigenti inadeguate, da ultimo addirittura a dilettanti, si sono fregati le mani.
L’uscita dall’Europa non sarebbe ora il rimedio. Oltre a essere tecnicamente impervia – non ci riesce l’Inghilterra senza il vincolo dell’euro – sarebbe pure controproducente. Che cosa potrebbe fare l’Italietta, magari divisa in due, tra i marosi della globalizzazione? Né è un rimedio il sovranismo straccione che butta a mare i migranti: è solo una moda, per scaricare migranti fuori casa propria, piuttosto diffusa e emblematica di un’Europa egoista e intristita. Il rimedio sta invece in un’altra Europa e in un’altra Italia, che, archiviata la secessione dei ricchi in tutte le sue manifestazioni, riscoprano che stare insieme implica un vincolo reciproco di solidarietà. I destini umani sono effimeri. Quelli degli Stati e delle regioni lo sono pure. Non si sa mai: un tale vincolo sarebbe convenienza di tutti.
A inizio millennio le istituzioni europee hanno investito cifre mostruose per accreditare un’identità continentale. La crescita delle disuguaglianze ha vanificato lo sforzo. C’è ora da stare ben attenti. Le vittime – i left behind, gli have not – sono capaci di colpi di coda scomposti e terribili, come la Brexit, i successi elettorali dei populisti, in varie salse, i gilets jaunes. Non è necessario immaginare smottamenti elettorali imponenti. Bastano pochi elettori, incolleriti, che poco hanno da perdere e che non fanno troppo caso alle strumentalizzazioni di chi lavora a inquinare le istituzioni democratiche e la convivenza civile.
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