Dopo circa un anno dal’avvio della XVIII legislatura nella storia della Repubblica, l’Italia si propone agli occhi del mondo come un attore animato da eccessivo tatticismo, propenso a svilire istituzioni e trattati internazionali, cinico e maldestro nella ridefinizione della propria rete di alleanze. Convinto che la rinazionalizzazione delle questioni più complicate consenta una loro più facile soluzione e pericolosamente incline a manifestare la non irreversibilità della collocazione della sua cultura politica dominante nel novero di quelle delle democrazie occidentali. La sua politica estera sembra orientata prevalentemente, se non unicamente, ad alimentare i temi di un’infinita campagna elettorale, schiacciata sul presente e propensa a ignorare le conseguenze durature delle decisioni contingenti, irresponsabilmente disponibile a danneggiare in maniera permanente i rapporti con gli alleati chiave del Paese, mettendo a repentaglio, per riprendere Tucidide, la sicurezza, gli interessi e la reputazione della Repubblica.

La considerazione da cui partire è che, per poter avere una coerente politica estera è una visione del mondo, della sua evoluzione e di come quelli che per brevità definiamo gli “interessi nazionali” si collochino nel quadro dell’una e dell’altra. La stessa idea di politica estera incorpora il senso del limite, dei condizionamenti che derivano dall’articolazione del sistema internazionale, sul quale la possibilità di influenza del singolo attore è per definizione modesta, perché le capacità che si hanno a disposizione sono sempre e comunque scarse. La comprensione delle dinamiche internazionali serve quindi a relativizzare questa scarsità, concentrando le risorse sugli obiettivi più importanti e cercando di porvi rimedio attraverso la tessitura di una rete di alleanze che permetta di compensarne l’insufficienza.

Pensare che l’Italia abbia degli interessi nazionali non significa essere inconsapevoli che essi siano continuamente ridefiniti dalla contrattazione politica nel governo, nelle istituzioni e tra istituzioni e società. Perché la politica estera è una “politica pubblica”, né più né meno di quella sanitaria, dell’istruzione o fiscale, frutto quindi di una continua dialettica tra tutti i soggetti che in misura differente e a diverso titolo concorrono ad elaborarla. Ma in maniera del tutto peculiare la sua efficacia è determinata anche dall’accoglienza e dall’apprezzamento che riceve oltre i confini e quindi andrebbe maneggiata con estrema cautela. Essa è lo strumento attraverso il quale un Paese cerca di manifestare e attuare gli obiettivi che intende perseguire, tentando di ridurre l’impatto che deriva dai condizionamenti frutto sia del sistema internazionale sia delle politiche estere degli altri Paesi. Allo stesso tempo, nella relazione con i partner e gli alleati, ricerca quelle convergenze e quei compromessi che consentano, proprio attraverso il sostegno esterno, di meglio e più profondamente perseguire i propri interessi nazionali. Si fa squadra, per così dire, e in tal modo si cerca di guadagnare più terreno. Il continuo bilanciamento tra le pressioni interne e quelle esterne, tra il consenso domestico e quello internazionale è quindi un’elementare misura di saggezza, così come lo è la scelta di partner e coalizioni affidabili, i cui membri abbiano interessi compatibili con i propri e siano dotati di risorse importanti. Il Giano bifronte è la divinità sotto la quale una corretta politica estera dovrebbe cercare protezione: non certo in omaggio a una qualche forma di scaltra doppiezza, ma perché solo sapendo guardare ed equilibrare risorse e vincoli interni ed esterni è possibile aspirare al successo.

 

[L'articolo di Vittorio Emanuele Parsi pubblicato sul "Mulino" n. 3/19 è liberamente scaricabile qui]