Strano destino, quello del Partito democratico, al centro delle bufere giudiziarie. Torna in scena il rapporto tra etica e politica, solamente che questa volta coinvolge direttamente chi ha fatto della “questione morale” e dell’”etica pubblica” uno dei suoi valori fondanti. E lo ha fatto con merito perché, in un contesto dove moralità, trasparenza e correttezza dell’azione politica sono beni notoriamente in disuso, si è dato da tempo regole interne e principi di comportamento: la sospensione di Filippo Penati ne è la testimonianza.
Ma è inutile nascondersi dietro il classico dito, l’etica è qualcosa in più del semplice rispetto della legge. In altri termini: l’accertamento della responsabilità penale spetta alla magistratura e Penati ha il pieno diritto a tutte le tutele previste dall’ordinamento, con il rispetto che si deve a qualsiasi imputato che, nell’ambito delle procedure, manifesta la propria innocenza. Ma chi ricopre cariche politiche ha una forma di responsabilità diversa che richiede, nella gestione del potere, canoni di particolare rigore personale e di protezione della reputazione del partito che si rappresenta. Sono canoni che vanno scrutinati e verificati con attenzione prima e al di là degli accertamenti giudiziari, anche perché quando le ipotesi di reato emergono, la frittata, anche sul piano mediatico, è ormai fatta.
All’inizio del 2008 il Partito democratico ha adottato un codice di autoregolamentazione che esplicitamente (punto 2) richiede agli aderenti a tutti i livelli di “favorire la trasparenza dei processi decisionali e la partecipazione democratica nelle forme più inclusive”. Inoltre, essi devono ispirare “il proprio stile politico all’onestà e alla sobrietà. Mantengono con i cittadini un rapporto corretto, non abusano della loro autorità o carica istituzionale per trarne privilegi; rifiutano una gestione oligarchica o clientelare del potere, logiche di scambio o pressioni indebite”. Sono prescrizioni abbastanza generiche, come ogni norma etica, ma chiare nell’individuare principi virtuosi nell’azione politica. E’ evidente, però, che rischiano di apparire le solite parole belle e finire in carta straccia senza che ci sia qualcuno che indaghi e controlli sulla reale applicazione di questi principi sanzionando il loro mancato rispetto.
Lo Statuto del partito (art. 40) prevede una Commissione di garanzia con il compito di favorire “una corretta applicazione del codice etico” e (art. 43) un Comitato per l’attuazione del codice etico con il compito, fra l’altro, “di esprimere pareri vincolanti “su segnalazioni di inosservanza del codice etico indirizzate alla Commissione di garanzia”.
Ma questi organi per divenire vere e proprie magistrature interne hanno bisogno di autonomi strumenti di indagine, anche di propria iniziativa, efficaci procedure di accertamento delle violazioni e poteri di erogare adeguate sanzioni.
In sostanza, l’autoregolamentazione è utile, non solo per reprimere e intervenire ex post, come ha appunto fatto in questo caso la Commissione di garanzia, ma soprattutto per prevenire comportamenti che, al di là dell’ovvio rispetto della legge, appaiono contrari ai valori prima richiamati: insomma, per intervenire prima che i buoi siano già usciti dalla stalla. Se, però, non ha denti per mordere, corre il rischio di servire a ben poco. Senza considerare che i denti per mordere sarebbero utilissimi anche per chi, accusato di scorrettezze e di”malapolitica”, ha tutto l’interesse a uscire dai miasmi delle polemiche con un giudizio equilibrato, serio e indipendente, che accerti se effettivamente la sua azione sia compatibile con i principi etici del partito.
Questa vicenda, al di là del suo esito finale, può rappresentare un’occasione per declinare e sperimentare interventi di autoregolamentazione coraggiosi in grado di dare (e mostrare) concreta applicazione ai principi etici. Un’occasione da non perdere, perché, come ha scritto un militante sul sito ufficiale del Pd, “chi vota Pd non pensa di essere migliore degli altri, ma vuole fortemente cercare di esserlo”.
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